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Tassa sulle banche. Il populismo finanziario del governo genera iniquità e non risolve i problemi

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Dopo trent’anni di retorica liberista applicata al settore bancario e finanziario, tassare gli utili bancari significa intervenire solo sulla coda del problema. Un approccio più serio e riformista mette invece davanti al capitale bancario e finanziario una scelta netta: o continui a fare trading a microsecondi e paghi caro il privilegio di farlo in un sistema garantito e vigilato, oppure vieni premiato se orienti le risorse verso l’economia reale. L’analisi di Alessandro Messina

Questo articolo è un estratto del paragrafo sulle banche all’interno del Rapporto 2026 della campagna Sbilanciamoci! “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente”, di prossima pubblicazione.


Non si può essere contrari in linea di principio a un aumento della tassazione sulle banche ma quella del governo è una toppa che non ripara nulla, e soprattutto non copre l’enorme buco -di concorrenza e modello di intervento- determinatosi in questi anni nell’assetto del mercato bancario.

In Italia oggi abbiamo meno di 200 banche (in termini di centri di governo), sempre più grandi, sempre più interconnesse e intrecciate con la grande finanza globale, gli sportelli chiudono e il credito si restringe, una contrazione che colpisce soprattutto le piccole e medi imprese (Pmi) e il Terzo settore.


In un simile oligopolio bancario il potere dei gruppi privati cresce e diventa cruciale la qualità della supervisione e della regolazione pubblica. Ma la politica non riesce a esprimere un presidio forte e indipendente. A fronte di una generale subordinazione culturale ai diktat della grande finanza, il meglio che i governi riescono a escogitare sono le interferenze politiche dirette nelle scelte di governance bancaria (come nell’ultima vicenda Mps), condite da illegali attività delle strutture di intelligence (il cosiddetto affare Paragon), o dai tentativi di ingraziarsi i favori delle grandi banche comprimendo i diritti dei piccoli azionisti, con il recente progetto di riforma del Testo unico della finanza. La stessa Banca d’Italia mostra brutali forme di ostilità verso chi denuncia pratiche interne (il recente licenziamento di un whistleblower). 

Allora occorre domandarsi se e quanto la tassa sulle banche stia colpendo la rendita bancaria oppure stia solo spostando risorse dentro lo stesso equilibrio di potere. La Legge di Bilancio 2026 introduce un pacchetto di misure fiscali che non viene chiamato “tassa sugli extra-profitti”, ma ne riprende l’impostazione di fondo: prendere una quota di utili bancari e portarla a gettito pubblico. L’ordine di grandezza è 10-12 miliardi di euro nel triennio 2026-2028 (circa 4-4,5 miliardi nel solo 2026), ossia uno 0,15-0,20% annuo degli attivi bancari. Queste misure sono formalmente temporanee, ma con orizzonte triennale. Con un meccanismo che riguarda soprattutto gli istituti di credito più grandi: le riserve create nel 2023 per evitare il prelievo secco sugli extra-profitti possono ora essere “affrancate” pagando un’aliquota ridotta (27,5% nel 2026 o 33% nel 2027). Dal 2028 in avanti, se le banche volessero distribuire dividendi attingendo a quelle riserve senza aver pagato l’affrancamento, scatterebbe l’imposta piena, più costosa. Tradotto: alle banche conviene pagare prima, liberare quelle riserve e distribuirle agli azionisti nel biennio 2026-2027, invece che tenerle a patrimonio e usarle con calma. È una forma di incentivo indiretto alla distribuzione accelerata di utili accumulati. 

Che cosa significa tutto questo nei numeri? Se prendiamo le prime dieci banche italiane, che insieme valgono circa l’80% dell’attivo di sistema, e assumiamo utili ante imposte nell’ordine di 36 miliardi, patrimonio netto di 250 miliardi e un payout medio del 45%, lo scenario senza manovra fiscale porterebbe a un utile netto aggregato di circa 26,5 miliardi e un rendimento del capitale (Roe) medio del 10,6%. Con la manovra 2026 l’utile netto scenderebbe intorno a 23,8 miliardi e il Roe medio al 9,7%. Se si includesse anche l’affrancamento con distribuzione anticipata delle riserve 2023, l’utile netto risalirebbe di poco (24,2 miliardi) e il Roe al 9,9%. L’erosione attesa del Roe medio è di circa 0,7 punti percentuali. Per i grandi gruppi è un fastidio, non un dramma: loro hanno le riserve più ampie e possono gestire il trade-off tra capitale trattenuto e dividendo. Dal lato del credito all’economia reale, la combinazione di più tasse e meno capitale interno si traduce in due effetti: minore capacità complessiva di credito (fino a 25-30 miliardi di euro in meno di spazio potenziale di prestito rispetto a uno scenario neutro); e un incremento del costo medio del credito alle Pmi stimabile in 10-15 punti base. Cioè: le imprese più piccole, quelle che fanno più fatica ad avere credito, rischiano di pagarlo anche un po’ di più. E questo è un grave problema, perché -come visto- sono le stesse Pmi che già subiscono una stretta creditizia prolungata e continuativa. 

Qui emerge un altro punto critico. Le misure fiscali colpiscono in modo molto diverso banche grandi e banche piccole. Per una banca con attivo tra due e cinque miliardi di euro, lo shock combinato della manovra può significare una riduzione dell’utile netto tra il 15% e il 20% nel primo anno, con rischio di erosione patrimoniale e minore spazio per erogare nuovo credito. Queste sono spesso le banche più radicate sul territorio, con maggiore propensione al credito tradizionale; quindi, proprio quelle che si dovrebbe proteggere se -come viene affermato dal governo- la priorità è sostenere l’economia reale italiana.

Una (parziale) buona notizia riguarda le Bcc, per le quali l’impatto è contenuto in virtù del regime fiscale cooperativo speciale. Per tutte le altre medio-piccole l’impatto sarà severo: con cinque miliardi di attivo si vedrà un effetto pari a -15%/-20% sull’utile netto, un calo del Roe da 9-9,5% a 7,5%, dunque pressione immediata sul capitale e la necessità di comprimere dividendi e razionare ulteriormente il credito.

È il tipo di fragilità che espone le banche piccole a essere inglobate. E questo probabilmente è un effetto indiretto della manovra non del tutto sgradito ai grandi banchieri, con i portafogli gonfi di utili degli anni passati da investire in nuove acquisizioni. Paradossalmente, ma non troppo, una misura nata “contro” le banche finisce per rafforzare le più grandi e per accelerare la concentrazione del mercato bancario italiano. 

Quindi: la manovra non è neutra. Accarezza i grandi perché li lascia comunque padroni della regia del capitale e della politica dei dividendi, scaricando costi sistemici sul credito. E penalizza selettivamente le banche piccole, cioè le realtà indipendenti che già faticano a restare autonome. Il governo preferisce fare “populismo finanziario”, rinunciando a intervenire sulla struttura del mercato, a un pur possibile orientamento dell’uso del (tanto) capitale a disposizione.

Invece, si potrebbe lavorare per incentivare la nascita e la ricapitalizzazione di banche innovative, territoriali, mission-driven, cioè banche che lavorano con Pmi, filiere produttive, transizione energetica, Terzo settore. L’obiettivo dovrebbe essere abbassare la concentrazione effettiva del mercato e spingere la crescita dei prestiti vivi a imprese e famiglie produttive. Senza pensare di recuperare i 300 miliardi di credito “persi” dal 2012 ad oggi, si ipotizzi un obiettivo di recupero pari a 100 miliardi di euro rispetto agli stock attuali. Cento miliardi in più di credito sono grosso modo il 5-6% del Prodotto interno lordo (Pil) italiano e l’ordine di un 10-12% dei prestiti oggi vivi alle imprese non finanziarie. Non è fantascienza. In base a stime prudenziali, quei 100 miliardi di euro di credito aggiuntivo possono portare a +1,5% di Pil effettivo: circa 30 miliardi di euro in più di attività economica annua a regime.

Non una fiammata, ma sviluppo, non una tassa temporanea, ma una misura strutturale. Che si traduce in gettito fiscale: il Pil aggiuntivo per 30 miliardi genera 10-11 miliardi di euro di entrate fiscali ricorrenti fra Iva, imposte sui profitti e contributi lavoro. È praticamente lo stesso ordine di grandezza del gettito che oggi si cerca con la tassa straordinaria sulle banche. Con una differenza sostanziale: qui il gettito arriva dall’espansione del credito e quindi dell’economia reale, non dalla compressione del capitale bancario. Produce effetto più equo, stabile, sostenibile nel tempo.

Infine, per rafforzare e completare l’intervento, si dovrebbe estendere il ragionamento alla finanza “di pura speculazione”, quella che della finanza-casinò, come il trading ad alta frequenza (high-frequency-trading), che assorbe capitale di rischio delle banche senza generare alcun effetto positivo sulla produzione e l’economia reale. Si potrebbe qui sì, finalmente, intervenire con una tassazione (direttamente sulle transazioni, rimodulando la cosiddetta Tobin Tax, oppure sulle società, con la revisione dell’Irap) che riorienti il sistema di incentivi, rendendo relativamente più costoso destinare capitale al trading proprietario speculativo e relativamente più conveniente usarlo per credito industriale e territoriale. Assumendo che l’area della finanza puramente speculativa “mobilitabile” valga 50 miliardi di euro, ponendo che anche solo il 40% venga effettivamente trasferito su prestiti all’economia reale, si tratta di 20 miliardi di credito aggiuntivo. A questo punto lo stimolo complessivo al credito diventa 120 miliardi, che generano circa 36 miliardi di Pil aggiuntivo e 12,5 miliardi di nuovo gettito fiscale potenziale, strutturale, collegato a maggiore credito e maggiore attività economica reale, non a una tassa spot. 

Verrebbe ribaltata la logica. Invece di tassare la rendita bancaria dopo averla lasciata libera di formarsi, si usano regole e tasse per favorire il credito produttivo. Questo vale nuovo gettito per lo Stato, sviluppo economico, equità sociale. 

Non si tratta di una passeggiata. A certe condizioni, però può funzionare: controlli sulla qualità del credito, vera indipendenza di chi vigila, liberazione di capitali privati per l’afflusso verso i patrimoni bancari, un attento governo dell’equilibrio tra concorrenza e stabilità.  

Dopo trent’anni di retorica liberista applicata al settore bancario e finanziario, tassare gli utili bancari significa intervenire solo sulla coda del problema. Un approccio più serio e riformista mette invece davanti al capitale bancario e finanziario una scelta netta: o continui a fare trading a microsecondi e paghi caro il privilegio di farlo in un sistema garantito e vigilato, oppure vieni premiato se orienti le risorse verso l’economia reale. Questa è la vera leva industriale del credito. È anche, realisticamente, la sola forma di “tassa sulle banche” che può diventare sviluppo invece che restare effimero slogan. 

Alessandro Messina, di formazione economico-finanziaria, si occupa da 25 anni di banche, Terzo settore e politiche pubbliche per lo sviluppo. È stato direttore generale di Banca Etica. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, “Manager cooperativi” e “Money for nothing” dal quale è stato tratto anche il podcast

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