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Diritti / Intervista

Sulle tracce di chi ha ucciso la luchadora social Berta Cáceres

In un libro-inchiesta la giornalista Nina Lakhani ripercorre l’impegno della leader indigena lenca, assassinata in Honduras nel 2016, e indaga sui mandanti dell’omicidio. Sullo sfondo un Paese segnato da violenze e uno Stato criminale

Tratto da Altreconomia 235 — Marzo 2021
Berta Cáceres ai microfoni di una delle due radio comunitarie del COPINH, Radio Guarajambala e La Voz Lenca © Archivio COPINH

Sono passati cinque anni dall’omicidio di Berta Cáceres. La leader indigena lenca moriva nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2016, poco prima della mezzanotte, nella sua casa a La Esperanza, nel dipartimento di Intibucá, nel Sud-Ovest dell’Honduras. Alcuni sicari erano entrati nella sua casa. Uno le aveva sparato a bruciapelo tre colpi di pistola. Le sue ultime parole furono rivolte all’amico messicano Gustavo Castro, ospite nella sua abitazione, ferito anche lui da un colpo di arma da fuoco. Chiese di chiamare Salvador, l’ex marito Salvador Zuniga, il padre dei suoi quattro figli, l’uomo con cui oltre 20 anni prima aveva fondato il COPINH, l’organizzazione indigena di cui era direttrice. “No te vayas”, non andartene, le sussurrava Gustavo, attivista ambientale e difensore dei diritti umani messicano, ma si spense in pochi minuti a causa delle ferite.

La scena dell’omicidio è quella su cui si apre il libro-inchiesta di Nina Lakhani, “Chi ha ucciso Berta Cáceres?”, tradotto in italiano da Capovolte, una piccola e coraggiosa casa editrice indipendente di Alessandria: la giornalista inglese, corrispondente per la giustizia ambientale per il quotidiano inglese The Guardian a New York, ha lavorato per sei anni e mezzo tra Messico e Centro America. Nell’autunno del 2013 Lakhani aveva intervistato Cáceres, incontrandola nel pieno del conflitto che vedeva il COPINH opporsi alla costruzione di una centrale idroelettrica ad Agua Zarca, lungo il rio Gualquarque, nei pressi della comunità rurale di Río Blanco, sempre in Intibucá. È la lotta che le valse, nella primavera del 2015, il Goldman Environmental Prize, il “Nobel alternativo per l’ambiente”. Meno di 12 mesi dopo, però, Berta Cáceres venne ammazzata, a due giorni dal suo quarantacinquesimo compleanno. “Quando ho ricevuto la notizia, ho pensato immediatamente che l’avessero uccisa non solo per destabilizzare il COPINH e fermare la lotta contro la centrale idroelettrica di Agua Zarca, ma anche perché in questo modo avrebbero dato un messaggio chiaro in Honduras e in tutta la regione: se possono permettersi di assassinare quella che era la difensora dei diritti umani e la luchador social più importante di tutta l’America Latina in quel momento, con un forte riconoscimento internazionale, è perché avevano sicurezza dell’impunità”, sottolinea Nina Lakhani. “Per disgrazia, avevano ragione”.

Il titolo del libro contiene un punto di domanda, perché?
NL Nel dicembre del 2019 è arrivata una condanna per la banda dei sicari che hanno ucciso Berta Cáceres, ma nonostante questo l’omicidio non è stato risolto. Questo non ci sorprende: se analizziamo gli omicidi di alto impatto nella storia dell’America Latina, come quelli del vescovo Juan Gerardi, nel 1998 a Città del Guatemala, o di monsignor Oscar Romero, nel 1980 in El Salvador, sappiamo che la giustizia non è semplice né un processo è breve quando l’omicidio chiama in causa lo Stato. In questo caso, osservo che si sta “esponendo” uno strato per volta: il primo giudizio di colpevolezza è un passo molto importante ma non sappiamo quanti livelli di responsabilità manchino all’appello -il piano politico, il ruolo dei militari- e siano ancora nascosti. Il tema è emerso una volta, parlando con la figlia Bertita: sapeva dall’inizio che sarebbe toccato loro esigere giustizia e che il processo sarebbe stato lungo.

“Il primo giudizio di colpevolezza è un passo importante ma non sappiamo quanti livelli di responsabilità manchino all’appello e siano ancora nascosti”

Il sottotitolo del suo libro potrebbe essere “biografia di uno Stato criminale”.
NL Quando ho iniziato a lavorare in Honduras, nel 2013, molti interlocutori parlavano di uno “Stato fallito”. Mi sono resa conto, però, che non è così: lo Stato non ha fallito né è fallito perché in realtà funziona per com’è stato disegnato, al pari del Messico, del Guatemala o della Colombia. Lo Stato è disegnato per garantire benefici alle élite economiche e realizza questo disegno: lo stesso avviene anche in Italia o in Gran Bretagna. I politici, per me, appartengono a un secondo livello di potere e se occupano determinati ruoli è grazie al potere economico, legale e illegale. È possibile che anche gli uomini politici si arricchiscano, ma se stanno lì è nell’interesse delle élite. Questo Stato criminale, come lo chiamo, è qualcosa che dobbiamo riconoscere perché ci aiuta a capire l’impunità, il modello estrattivista, l’onda di violenza contro giornalisti, avvocati, gruppi che minacciano lo status quo. Sappiamo che il Partito Nazionale (che governa il Paese dal 2009, ndr) è un sofisticato gruppo criminale mascherato da partito politico e ne abbiamo molteplici esempi. A metà gennaio 2021, ad esempio, il nome del presidente Juan Orlando Hernandez, da sette anni al potere, è uscito nell’ambito di un giudizio per narcotraffico in corso a New York (una trafficante avrebbe contribuito alla campagna elettorale, nel 2013, ndr), e non è la prima volta. Il fratello, ed ex deputato, è stato giudicato colpevole sempre negli Usa di traffico di sostanze stupefacenti. Eppure, mentre giudici federali stanno raccogliendo prove contro di lui, il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato miliardi di dollari per affrontare le radici dell’emigrazione forzata nei Paesi dell’America Centrale, tra cui l’Honduras. Anche l’ex presidente, “Pepe” Lobo è un attore di questo gruppo criminale. Nonostante questo sia risaputo, anche molti Paesi europei e il Canada fanno affari con l’Honduras. Ci fu una pausa dopo il colpo di Stato del giugno 2009 che portò alla deposizione del presidente in carica Manuel “Mel” Zelaya, ma durò sei mesi e poi gli affari sono ripartiti.

Il colpo di Stato è una cesura anche nella biografia di Berta che era molto arrabbiata nei confronti di Hillary Clinton. Allora segretario di Stato degli Stati Uniti, non riconobbe il golpe.
NL Esiste un Honduras prima e uno dopo il colpo di Stato del 2009. Anche se “Mel” non era il migliore dei presidenti possibili, rispetto a chi lo ha preceduto e a chi è venuto dopo avanzava seguendo una traiettoria più giusta, verso una maggiore uguaglianza nella società. E questo lo sapevano tanto Berta quando altri attivisti e sindacalisti che ho incontrato, da Padre Melo a Carlos H. Reyes. Nei giorni successivi al colpo di Stato, all’inizio di luglio, Zelaya tentò di rientrare nel Paese ma il suo aereo non fu fatto atterrare. Quel giorno Berta lo attendeva sulla pista, insieme all’amica Miriam Miranda, attivista di OFRANEH, l’organizzazione del popolo garifuna. A lei ho chiesto perché le due amiche avevano pianto, non erano mai state vere sostenitrici di “Mel”. La risposta è che sapevano che quel giorno significava la fine di ogni speranza, l’inizio di una terribile ondata di repressione. Gustavo Castro descrive Berta come una persona realista ma sempre positiva: in quel momento, invece, entra in uno stato de baja, era abbattuta, sentiva quello che sarebbe successo.

Berta che veniva dalla montagna di Intibucá e Miriam originaria della costa caraibica erano amiche da quindici anni. Si erano conosciute nel 1994 in una manifestazione epocale. Che cosa era successo?
NL Nel giugno di quell’anno, Berta e Salvador ebbero un’idea geniale, ispirati dalle immagini della sollevazione in armi degli indigeni maya del Chiapas con l’occupazione di alcune città dello Stato il primo gennaio 1994 da parte dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln). Organizzarono una marcia del popolo lenca verso Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras, e durante il pellegrinaggio fecero “incontrare” questo con tutti gli altri popoli originari. Gli osservatori dicono che, anche in questo caso, c’è un Honduras prima e uno dopo quella data. Secondo alcuni, nel lungo periodo Berta sarà ricordata per aver obbligato lo Stato hondureño a riconoscere i popoli originari come soggetti del “presente” e non solo come parte del “passato”.
Con la sua azione ha acceso un riflettore sul Paese: a differenza degli altri Stati del Centro America -Guatemala, El Salvador, Nicaragua- in Honduras non c’è mai stato un vero conflitto interno, ufficiale, e questo ha fatto sì che non siano mai arrivate risorse e organizzazioni internazionali a sostegno dello sviluppo locale. Nessuno sapeva nulla di questo Paese finché in quel momento i popoli indigeni dichiararono la loro presenza, la loro resistenza e chiesero il rispetto dei loro diritti, diritti essenziali come quelli a terra, acqua, educazione, salute.

“Risorse naturali, diritti umani e ambiente, acqua pulita e accessibile, una società non razzista e meno patriarcale sono elementi in equilibrio nella riflessione di Berta”

L’esempio dell’Ezln mosse qualcosa in Berta, che era già una leader anche se non aveva ancora compiuto 23 anni. L’opzione della lotta armata, però, non fu mai la sua.
NL Quando Berta era appena maggiorenne ha passato alcuni anni con Salvador accompagnando la resistenza nel vicino El Salvador, durante la guerra civile. Quand’è nato il COPINH, entrambi hanno voluto che fosse e che si mantenesse sempre un movimento pacifico. In tutto il Centro America nessun conflitto è mai stato risolto con le armi: Berta lo ha sempre saputo e sapeva anche che gli Accordi di pace erano vincolati allo sfruttamento della terra e delle risorse naturali. È successo anche in Colombia dove dopo la firma nel 2016 è iniziata una tremenda ondata di violenza contro i difensori dei diritti umani.

Lei ha intervistato i membri del commando che ha ucciso Berta. Tra loro anche ex militari e appartenenti alle forze di intelligence. Si sono mostrati pentiti?
NL Ho parlato con quasi tutti i membri della banda e con David Castillo, il presidente dell’impresa che costruisce la diga di Agua Zarca, DESA, che è in attesa di processo come mandante dell’omicidio. Tutti negano la loro responsabilità. Non l’accettano né riconoscono, quindi, la gravità di ciò che hanno fatto. Mi ha colpito capire chi sono i sicari: tre giovani provenienti da famiglie con poche risorse, da famiglie umili che hanno offerto loro ben poche opportunità. Berta lottava per loro. Sappiamo che almeno in due dopo l’omicidio hanno cercato di raggiungere gli Stati Uniti. Lei lavorava per un mondo migliore perché i giovani non fossero costretti a migrare.

Uno striscione ricorda che per gli indigeni lenca Berta è ancora viva © Archivio COPINH

Un anno prima di essere uccisa Berta Cáceres aveva vinto il Goldman Prize ma non era un’ambientalista. Per lei, scrive, l’ambiente era uno strumento di lotta.
NL Sua figlia Bertita dice che la madre era una luchadora social, una lottatrice sociale. Questa etichetta contiene anche la lotta per la difesa dell’ambiente che in una cosmovisione indigena è parte stessa della vita. Risorse naturali, diritti umani e ambiente, acqua pulita e accessibile, una società non razzista e meno patriarcale sono elementi in equilibrio nella riflessione di Berta. Nina Lakhani nel libro confessa di avere la pelle d’oca ogni volta che ascolta il discorso con cui Berta Cáceres ha ricevuto a San Francisco il Goldman Prize, che suona premonitore di ciò che temeva per la sua vita e dell’eredità che desidera lasciare: “Sveglia umanità, non c’è più tempo. Le nostre coscienze saranno scosse dal fatto che stiamo solo contemplando l’autodistruzione basata sulla predazione capitalista, razzista e patriarcale”.


IN DETTAGLIO
Cronologia di un delitto

  • 2011 
    Al via i lavori di costruzione di una diga sul río Gualquarque, nella zona di Río Blanco, Intibucá, in Honduras: è la centrale idroelettrica di Agua Zarca. La realizza Dearrollos Energéticos S.A. (DESA)
  • 15 marzo 2013
    Tomás García, leader comunitario di Río Blanco, è assassinato da un soldato che difende il cantiere DESA.
  • 12 settembre 2013
    Tre leader del COPINH, organizzazione indigena lenca, sono processati con l’accusa di essere i “mandanti” di un movimento popolare contrario alla realizzazione della diga e di danneggiamenti al cantiere. Sono Berta Cáceres, Aureliano Molina e Tomas Gomez.
  • 28 ottobre 2014
    Berta Cáceres è in Italia. Partecipa all’Incontro mondiale dei movimenti popolari voluto da Papa Francesco.
  • 20 aprile 2015
    A San Francisco Berta vince il Goldman Environmental Prize, assegnatole per la lotta in difesa del río Gualquarque.
  • 2 marzo 2016
    Poco prima della mezzanotte Berta è uccisa nella sua casa, a La Esperanza, Intibucá. Ferito l’attivista messicano Gustavo Castro, che dormiva in un’altra stanza.
  • 2 maggio 2016
    Vengono arrestate alcune persone, accusate dell’omicidio.
  • 31 ottobre 2017
    Un rapporto indipendente, firmato da un comitato consultivo internazionale di persone esperte, pubblica chat Whatsapp che rendono evidente il coinvolgimento diretto di DESA nella pianificazione della morte di Berta.
  • 2 marzo 2018
    Nel secondo anniversario dell’omicidio viene arrestato David Castillo Mejía, presidente dell’impresa idroelettrica DESA.
  • 20 novembre 2018
    Gli autori dell’omicidio vengono riconosciuti colpevoli.
  • 4 marzo 2019
    Secondo l’Unità speciale contro la corruzione e l’impunità della procura generale della Repubblica di Honduras e l’Organizzazione degli Stati Americani, ci sarebbero state frodi nel processo di autorizzazione per la diga.
  • 3 dicembre 2019
    Gli autori dell’omicidio di Berta vengono condannati a 34 anni di carcere ai qualii ne vanno sommati 14 per il tentato omicidio di Gustavo Castro.
  • 22 ottobre 2020
    Si è svolta l’udienza preliminare del processo contro David Castillo: è accusato di aver ordinato l’omicidio di Berta Cáceres.
  • Febbraio 2021
    Il processo contro David Castillo è ancora in corso.

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