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Il Sudafrica lancia la riforma agraria per dimenticare l’apartheid

Le abitazioni dove vive la comunità nera cui l’Hilton College ha occupato le terre a partire dalla seconda metà dell’Ottocento © Caterina Semeraro

Il presidente della Repubblica, Cyril Ramaphosa ha proposto un emendamento alla Costituzione che prevede l’esproprio senza indennizzo dei terreni di proprietà dei coltivatori bianchi per redistribuirla ai più poveri agricoltori neri

Tratto da Altreconomia 212 — Febbraio 2019

“Un tempo vivevamo lì, vicino al fiume”. Thanda Mwelase indica il fiume Umgeni, che dalle montagne del Drakensberg, in Sudafrica, attraversa la provincia dello KwaZulu-Natal per sfociare nell’Oceano indiano. Settant’anni, Thanda fa parte della quarta generazione della sua famiglia a vivere in quello che è oggi territorio dell’Hilton College, la scuola secondaria maschile più prestigiosa del Paese. Insieme ai suoi cari e alle altre 40 famiglie che compongono la comunità, Thanda potrebbe essere tra i primi beneficiari del controverso emendamento costituzionale promosso dalla nuova presidenza di Cyril Ramaphosa per consentire allo Stato di espropriare terreni senza compensazione. A pochi mesi dalle elezioni generali in programma a maggio, l’African National Congress (Anc), il partito di Nelson Mandela, punta ad accelerare il processo di redistribuzione della terra dai sudafricani bianchi ai sudafricani neri.

Secondo dati di AgriSA, la principale associazione di categoria che rappresenta gli agricoltori in Sudafrica, i primi posseggono circa il 73% dei terreni agricoli, pur costituendo poco più dell’8% della popolazione. In un Paese di 55 milioni di abitanti gran parte delle terre più produttive si concentra nelle mani di 34mila grandi agricoltori bianchi, che di fatto dominano un settore, quello agricolo, che nel suo insieme contribuisce per circa il 12% al Pil del Paese più industrializzato del continente.

Nato nella seconda metà dell’Ottocento come scuola per i figli dei coloni inglesi stabilitisi sul posto, l’Hilton College si è man mano esteso fino ad occupare gli attuali duemila ettari di terreno, su cui continuano a vivere, confinate in pochi ettari di terra, famiglie come quella di Thanda. “I nostri avi vivevano qui prima dell’arrivo dei bianchi”, spiega, mentre abbraccia con lo sguardo le colline rigogliose che circondano la tenuta. Negli anni “molte famiglie sono state mandate via per fare spazio all’istituto, mentre altre sono rimaste per costruire la scuola e lavorare per i bianchi, in cambio del necessario per sopravvivere”.

Una situazione non inusuale nel Sudafrica predemocratico, spiega Glenn Farred, program manager per Afra, associazione per lo sviluppo rurale. “Gli autoctoni avevano due opzioni per sopravvivere: lavorare nelle miniere in cambio di stipendi miserabili o vivere in regime di labour tenancy, ovvero lavorare nei terreni di proprietà dei sudafricani bianchi in cambio di un pezzo di terra da coltivare per sfamare le loro famiglie”. A più di due decenni dalla fine del regime segregazionista dell’apartheid, Thanda e altre circa 20mila persone nella sua condizione, i cosiddetti labour tenants, rivendicano la possibilità di vivere da legittimi proprietari nella terra in cui sono nati e in cui sono sepolti i loro avi. “Oltre un secolo di lavoro gratuito o sottopagato da parte della mia famiglia ci dà diritto a un pezzo di questa terra”, afferma, elencando le restrizioni imposte dall’Hilton College “nella speranza di vederci andare via”. Negli anni “è diventato sempre più difficile fare visita alle tombe dei nostri antenati”, oggi inglobate all’interno di una riserva naturale di proprietà dell’Hilton College. Per farlo, spiega, “abbiamo bisogno di un permesso scritto”. I dirigenti della scuola, inoltre, “pretendono di essere informati ogniqualvolta riceviamo delle visite e quando ci sono nuove gravidanze”. Di fatto, afferma Nokuthula Mthimunye, responsabile comunicazione per Afra mentre oltrepassiamo il cancello che delimita la proprietà dell’Hilton College, “per queste persone il rapporto di sudditanza tipico dell’apartheid non si è mai interrotto”.

Thanda Mwelase, 70 anni, potrebbe essere tra i primi beneficiari dell’emendamento costituzionale © Caterina Semeraro

Dal 1996, anno in cui il Sudafrica inseriva in Costituzione il diritto a un equo accesso alla terra per tutti nel Paese, solo circa l’8% dei terreni è stato redistribuito rispetto all’obiettivo del 30% che l’African National Congress si era dato nei suoi primi cinque anni di governo dopo la vittoria alle elezioni del 1994. Il dibattito sul tema ha attirato l’attenzione della stampa internazionale dopo l’intervento del presidente statunitense Donald Trump, che in un tweet pubblicato lo scorso agosto ha accusato il governo sudafricano di “togliere la terra agli agricoltori bianchi”. Il governo di Pretoria, per parte sua, ha chiarito che gli espropri senza compensazione saranno solo uno dei meccanismi a disposizione dello Stato per fare progredire il processo di riforma e che ad essere interessato dalla misura sarà solo un gruppo limitato di proprietà, come terreni occupati da labour tenants, proprietà abbandonate o detenute per scopi speculativi. “Non ci sarà nessun assalto alla proprietà privata”, ha scritto il presidente Ramaphosa in un intervento pubblicato sul Financial Times in risposta alle dichiarazioni di Trump.

In realtà la possibilità di espropriare terreni senza compensazione è già contemplata dalla Costituzione sudafricana, che dà allo Stato un forte mandato per portare avanti la riforma agraria e consentire a tutti un “equo accesso alle risorse naturali”. La proprietà, recita il paragrafo 25, può essere espropriata “nell’interesse pubblico” dietro “giusta ed equa compensazione”, laddove nulla vieta che una giusta ed equa compensazione venga fissata a zero. L’indennizzo deve infatti tenere conto, oltre che del valore di mercato, anche della storia dell’acquisizione di una determinata proprietà e del suo uso corrente. Finora tuttavia, spiega Donna Hornby, ricercatrice presso l’Istituto per la povertà, la terra e lo sviluppo rurale (Plaas) dell’università di Cape Town, “i governi che si sono succeduti hanno deciso di non avvalersi di questo potere, preferendo limitarsi ad acquistare la terra da chi era intenzionato a venderla, il cosiddetto approccio willing buyer-willing seller, basandosi su logiche di mercato che hanno di fatto reso questo processo lento e oneroso per lo Stato”.

“Non ci sarà nessun assalto alla proprietà privata”, ha scritto il presidente Ramaphosa sul Financial Times in risposta alle dichiarazioni di Donald Trump

Si tratta, adesso, di rendere questo potere di cui lo stato dispone “più esplicito”. Un emendamento costituzionale “può servire a chiarire che la riforma agraria non deve obbligatoriamente conformarsi allo schema willing buyer-willing seller, né tantomeno a compensazioni legate ai prezzi di mercato”, spiega la studiosa, chiarendo che oltre alla mancanza di volontà politica “il fallimento della riforma si deve anche all’incapacità operativa del dipartimento competente e all’alto livello di corruzione registrato fino ai più alti livelli delle istituzioni”.

Ma per i detrattori del provvedimento la misura rischia di scoraggiare gli investimenti e mettere a rischio la sicurezza alimentare. “Afriforum”, un gruppo di advocacy in difesa dei diritti degli agricoltori bianchi, ha annunciato battaglia legale per bloccare l’emendamento, paventando un calo degli investimenti nel settore e un conseguente impatto negativo sulla produzione agricola. Secondo gli esperti, tuttavia, si tratta di un rischio molto basso. Il Sudafrica, spiega Hornby, “è un esportatore netto di prodotti agro-alimentari. Il 20% delle grandi aziende copre da solo l’80% della produzione, destinata principalmente alla grande distribuzione e all’export”.

Studenti dell’Hilton College, la scuola secondaria più prestigiosa del Sudafrica © Caterina Semeraro

Ciononostante, nell’economia più industrializzata del continente africano, circa il 15% della popolazione è vulnerabile a insicurezza alimentare, secondo dati dell’Ufficio statistiche nazionale del Sudafrica relativi al 2017. In questo contesto, spiega Stha Yeni, coordinatrice nazionale di “Tshintsha Amakhaya”, piattaforma di organizzazioni della società civile per il diritto alla terra, una riforma agraria efficace “potrebbe rafforzare i piccoli agricoltori e migliorare il livello di sicurezza alimentare per i più vulnerabili”. Le istituzioni “devono investire sulla riforma e sui beneficiari, aiutandoli a sviluppare le loro capacità di produzione e accesso ai mercati. Non dimentichiamo che durante l’apartheid gli agricoltori bianchi hanno ricevuto enormi sussidi e agevolazioni da parte dello Stato. Ora chiediamo che ad essere sostenuti siano gli agricoltori neri”, afferma l’attivista sudafricana. Secondo stime del Plaas il governo non ha mai destinato a questo dossier più dell’1% del suo budget.

Il presidente Ramaphosa ha messo la riforma terriera in cima all’agenda del suo governo, complici le prossime elezioni e il timore di perdere terreno in favore del partito di estrema sinistra Economic Freedom Fighters (Eff), che ha fatto della riforma agraria il suo cavallo di battaglia. Il partito di Julius Malema, che a differenza dell’Anc vuole una nazionalizzazione delle terre, sta infatti raccogliendo un consenso crescente tra i sudafricani neri, delusi dagli innumerevoli scandali che hanno scosso il partito di Nelson Mandela. “La terra non è la soluzione di tutti i nostri problemi, ma è un punto di inizio e ha un ruolo enorme nel rispondere al tema della diseguaglianza in Sudafrica”, afferma Stha Yeni.

34mila grandi agricoltori bianchi possiedono la gran parte delle terre più produttive del Sudafrica. Il settore agricolo contribuisce al 12% del Pil del Paese

Secondo un rapporto della Banca Mondiale pubblicato lo scorso marzo il Sudafrica è il Paese più iniquo del mondo, dove l’un % della popolazione più ricca detiene il 70,9 % della ricchezza. I più esposti alla povertà, si legge nello studio, sono i sudafricani neri, sui quali continua a pesare l’eredità dell’apartheid. In Sudafrica, infatti, “la povertà ha una dimensione geografica”, che si concentra soprattutto nelle province in cui più forte è stata la presenza delle cosiddette “homelands”, i bantustan in cui il regime dell’apartheid confinava i sudafricani neri. Il Sudafrica, spiega Harold Liversage, esperto di questioni legate alla terra presso il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), “ha l’opportunità di imparare dai successi e dagli insuccessi delle riforme agrarie sperimentate in altri Paesi”.

Il primo passo, nelle zone rurali, “è pensare a interventi mirati, che guardino prima di tutto a coloro che già hanno le competenze per coltivare la terra”. Thanda Mwelase è tra questi, ed è pronto. “La mia famiglia ha lavorato la terra per generazioni. Adesso vogliamo solo avere quello che ci spetta”.

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