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Ambiente / Attualità

Ecco lo stato di salute dell’ambientalismo italiano

Attivisti di Greenpeace in azione a Roma, contro l’inquinamento atmosferico - © Tommaso Galli/Greenpeace

Sono 71 le sigle ufficialmente riconosciute dal ministero dell’Ambiente: un universo dalle biografie molto eterogenee fatto soprattutto di volontari. Resistono meglio le grandi associazioni, mentre faticano le piccole

Tratto da Altreconomia 200 — Gennaio 2018

“Dopo le parrocchie della Chiesa, le caserme dei carabinieri egli uffici delle Poste, spuntano anche i nostri mille gruppi locali”. Stefano Ciafani è il direttore generale di Legambiente, tra le principali associazioni ambientaliste italiane nata nel 1980. Fa una battuta per descrivere la “ramificazione territoriale” della realtà che dirige, per poi sgranare i numeri aggiornati a fine 2017 di quello che per Legambiente è un autentico “patrimonio associativo”: “Contiamo due uffici nazionali, 20 comitati regionali, 1.000 gruppi e 115mila tra soci e sostenitori”. Ciafani è soddisfatto: “In generale, in un periodo in cui anche l’associazionismo ambientalista in Italia ha subito le difficoltà patite da tutti i gruppi intermedi -partiti e sindacati in primo luogo-, dove la fase di profonda crisi del Paese ha prodotto disillusione, siamo soddisfatti di come abbiamo attraversato questi anni. Anni segnati anche dalla nascita di tanti comitati e tante sigle”.

Ricostruire lo “stato di salute” attuale dell’ambientalismo organizzato nel nostro Paese non è una cosa semplice. Soprattutto perché non è semplice individuare gli attori coinvolti. La prima fonte di riferimento è l’elenco curato dal ministero dell’Ambiente che reca tutte le “associazioni di protezione ambientale” italiane riconosciute ai sensi di una legge che nel 2018 compie 32 anni (la 349/86). Ad oggi se ne contano 71. Le biografie e gli ambiti di intervento sono diversissimi. Dall’Accademia Kronos di Ronciglione (VT, www.accademiakronos.it) al WWF Italia (Roma, www.wwf.it), dalla Federazione Nazionale della Proprietà Edilizia di Roma (www.federproprieta.it) al Club Alpino Italiano di Milano (www.cai.it), dall’Associazione Nazionale dei Rangers d’Italia con sede a Lurago d’Erba (Como, www.rangersitalia.it) all’Associazione Nazionale Energia del Vento (ANEV, Roma, www.anev.org).

Le prime realtà entrate a far parte dell’elenco sono state, tra le altre, il Fondo Ambiente Italiano (FAI), Italia Nostra, la Lega Italiana Protezione Uccelli, Mare Vivo, il Touring Club Italiano e Greenpeace. Quelle che sono appena arrivate, nel marzo 2017, sono invece il Centro Studi Interdisciplinari Gaiola e il Centro Studi Cetacei. Per poter esser riconosciuta -spiegano dal Segretariato generale del ministero dell’Ambiente- “un’associazione, costituitasi da almeno tre anni, che operi nel campo della tutela ambientale, può inoltrare istanza al ministero dell’Ambiente per ottenere il riconoscimento come associazione di protezione ambientale”. Di che cosa si tratta lo dovrebbe chiarire la norma: “Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque Regioni sono individuate con decreto del ministro dell’Ambiente sulla base delle finalità programmatiche e dell’ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell’azione e della sua rilevanza esterna”. Il ministero aggiorna l’elenco ogni tre anni. Al termine del percorso di valutazione, il titolare dell’Ambiente firma un decreto in cui conferma o revoca lo status dell’associazione riconosciuta. “La causa più frequente di revoca -prosegue il ministero- consiste nella carenza della continuità e rilevanza esterna dell’azione di tutela ambientale svolta dall’associazione”.
Di “continuità” dell’azione di tutela ambientale ne sa qualcosa Piero Belletti, ricercatore del dipartimento di Scienze Agrarie, forestali e alimentari all’Università di Torino e segretario generale della Federazione nazionale Pro Natura (
www.pro-natura.it), che abbraccia quasi un centinaio di realtà locali e tra le altre cose si occupa della conservazione del lupo, dell’orso bruno e della lince sulle Alpi (Programma Alpino Uomo e Grandi carnivori) e della gestione in concessione di 31 aree protette per finalità di protezione naturalistica e di impiego didattico. “Nel 2018 compiremo 70 anni”, esordisce Belletti. Una bella notizia che però non cancella le cattive: “L’ambientalismo è in uno stato comatoso, almeno questo è ciò che vale per noi che siamo ‘piccoli’. Stiamo resistendo, forse anche meglio dei colossi che avevano strutture grandi e costose e che oggi fanno fatica a mantenere. Non abbiamo dipendenti, siamo tutti volontari. Si può intuire l’enorme fatica”. Il segretario Pro Natura percepisce una disaffezione forte. “La società civile sembrerebbe essersi dimenticata delle problematiche ambientali. I periodi d’oro degli anni 80 e 90 dell’ambientalismo sono passati di moda”. La partecipazione è scemata ma il settore è diventato ancora più difficile. “Proteggere l’ambiente è una materia complicata che richiede competenze e abilità politiche, dialettiche. Significa investire tempo e risorse in attività di tipo volontaristico. E in questo periodo si è meno disposti a farlo. Noi lo stiamo misurando. Il numero dei soci diminuisce mentre l’età media aumenta”.

I volontari di Mountain Wilderness - © Mountain Wilderness
I volontari di Mountain Wilderness – © Mountain Wilderness

Pro Natura si sostiene con le quote delle associazioni federate. “Parte delle nostre risorse va nella pubblicazione del notiziario e nel mantenimento della sede di Torino”, spiega il segretario, che confida un paradosso. Le associazioni di protezione ambientale riconosciute dal ministero possono nominare un proprio rappresentante, ad esempio, nei comitati di gestione degli ambiti di caccia e dei parchi. “In Piemonte -spiega Belletti- siamo in lotta con la Regione perché questa continua a nominare nelle varie strutture dove è prevista la presenza ambientalista personalità di altre realtà”. Dalle oasi di Pro Natura all’alta montagna che sta a cuore a Mountain Wilderness (www.mountainwilderness.it), associazione nata a Biella nel 1987, attiva in 11 Regioni e presieduta da Franco Tessadri. Tra le iniziative che porta avanti “MW” c’è anche la messa a punto di un inventario degli impianti sciistici di risalita (sull’arco alpino ce ne sono oltre 12.000) e dei relativi cantieri ormai abbandonati sui versanti. L’obiettivo è la loro bonifica. Anche Tessadri, però, ha uno sguardo disilluso. “La percezione che abbiamo oggi dopo anni di battaglie -spiega- è un po’ triste. L’interesse giovanile è in parte sfumato anche a causa della precarietà diffusa che gli toglie quella voglia di guardare con un po’ di calma a ciò che è il mondo circostante”. Siamo rimasti gli stessi, ripete Tessadri. Oggi “MW” conta 600 soci. “Quando ho cominciato a interessarmi a questi temi avevo 30 anni, ora ne ho 60. In mezzo non c’è stata una risposta generazionale, siamo invecchiati”. Ma una luce, forse, si è accesa. “Ultimamente un gruppo di ragazzi si è affiancato al nucleo storico. Ci hanno ringiovanito, aggiornato molto bene il nostro sito, reso la segreteria più snella, attivato procedure di firma elettronica. Speriamo così di poterci rilanciare”.

“Proteggere l’ambiente richiede competenze, tempo e risorse in attività di tipo volontaristico. E in questo periodo si è meno disposti a farlo” – Piero Belletti

Un colosso come il Fondo Ambiente Italiano (www.fondoambiente.it) -fondazione senza scopo di lucro nata nel 1975- è ottimista. Nel 2016, si legge nell’ultima relazione di gestione, ha gestito 57 beni visitati da 775mila persone. Più 21% in un anno. Può contare su 120 delegazioni, 85 “Gruppi FAI”, circa 150mila iscritti e 9.600 donatori. Nel modello del FAI sono centrali i contributi privati e le sponsorizzazioni delle aziende. Nel 2016, infatti, le aziende che hanno riconosciuto un contributo sono state oltre 500: 6,8 milioni di euro in totale, il 15,5% delle entrate. “È un periodo di forte crescita -racconta Daniele Meregalli, responsabile dell’ufficio Ambiente del FAI-. Oltre alla gestione dei beni e alla sperimentazione in alcuni di questi di progetti di utilizzo e recupero virtuoso dell’acqua e di agricoltura biologica, il Fondo si è speso su altri fronti. Infatti, a parte Toscana, Puglia e Sardegna, nel resto d’Italia si è fatto pochissimo in tema di piani paesaggistici regionali”.

Anche Greenpeace (www.greenpeace.it) registra una “crescita costante” dell’interesse alle sue attività. “Dai 36mila sostenitori del 2006 siamo passati a 79mila”, spiega Andrea Pinchera, direttore comunicazione e fundraising dell’associazione che in Italia è nata nel 1986 e oggi conta tre uffici e 50 dipendenti. La rete territoriale è fatta di 1.200 volontari, di cui 500 organizzati in 28 gruppi locali presenti in tutto il Paese, salvo la Valle d’Aosta. Il 2017 di Greenpeace -realtà che non accetta alcuna sponsorizzazione o finanziamento pubblico ma solo contributi privati o dal 5×1000- ha visto al centro dell’agenda la questione “PFAS” e acque contaminate in Veneto, i motori diesel e l’aria inquinata delle principali città italiane e la lotta al glifosato in agricoltura.

Il confronto tra la forza di queste “grandi” associazioni e le fatiche delle “piccole” è impietoso. Con qualche eccezione. WWF Italia Onlus, dopo aver chiuso il bilancio 2015 con 320mila euro di perdite, ha tagliato sensibilmente i costi (da 10,9 milioni a 8,9) e ridotto il personale da 103 a 74 unità. Fabio Balocco, avvocato e ambientalista, è un osservatore attento di queste dinamiche: “La delega vaga per un futuro migliore non appassiona più i giovani -riconosce Balocco-. E alcuni strumenti rischiano di risultare obsoleti: le conferenze stampa, le lettere, le riunioni”. Oggi sono cambiati i “canali”. Per Balocco oggi “prevale l’immediatezza: una petizione online specifica, un comitato ad hoc, una manifestazione. Linguaggi che l’organizzazione ambientalista classica fa più fatica a leggere e interpretare”.

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