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Economia / Opinioni

Che cosa succede quando gli Stati possono indebitarsi gratis

Il debito pubblico di numerosi Paesi del mondo ritenuti solidi viene venduto oggi a tassi negativi, come fosse considerato un bene rifugio per gli investitori. È un fenomeno nuovo che rappresenta un’opportunità ma anche un rischio. Il caso dell’Italia. L’analisi di Alessandro Volpi

Stiamo assistendo a un fenomeno nuovo. Il debito pubblico di molti paesi del mondo viene venduto a tassi negativi. In Germania, ad esempio, il titolo decennale viene collocato con un tasso di -0,69% e in Svizzera si arriva addirittura a -1,09, ma hanno tassi negativi anche i titoli pubblici di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Giappone, Irlanda, Paesi Bassi e Svezia. In parole semplici ciò significa che esiste una grande massa di soggetti, in particolare investitori istituzionali, che sono disposti a prestare soldi agli Stati non solo non ricevendo un interesse in cambio, ma addirittura ottenendo alla scadenza dei titoli acquistati una somma inferiore, in termini reali, rispetto a quella prestata.
Questo fenomeno si manifesta persino per titoli di debito a scadenza molto lunga, che in genere comportano un rischio maggiore. Si tratta come accennato di un fatto largamente sconosciuto in passato, quando per la stragrande maggioranza degli Stati ottenere prestiti era particolarmente costoso.

Perché avviene? Le ragioni sono molteplici ma hanno in larga misura a che fare con un dato comune: sembra sparita l’inflazione, ormai stabilmente sotto il 2% in gran parte del mondo, e dunque per le banche centrali diventa possibile, e per molti versi necessario, abbattere i tassi di interesse e di conseguenza inondare i mercati di liquidità che gli investitori riversano sui titoli di Stato, a loro volta messi nelle condizioni di ridurre il proprio rendimento.
Nel corso del 2019 ben 30 banche centrali hanno ridotto i tassi di interesse; un fenomeno che ha coinvolto, tra gli altri, oltre alla zona euro, agli Stati Uniti e al Giappone, Brasile, India, Nuova Zelanda, Perù e Filippine. Il presidente Donald Trump si è spinto a qualificare Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, più pericoloso della Cina perché non ha ancora ulteriormente abbassato il costo del denaro.

Perché l’inflazione sembra scomparsa? Anche in questo caso le risposte possibili sono molteplici. In primo luogo perché la crisi economica iniziata nel 2008 ha depresso i consumi in varie parti del Pianeta. Ad abbattere il livello dei prezzi internazionali ha contribuito poi la capacità delle economie emergenti, Cina in primis, di ridurre il costo di produzione di numerosissimi beni. Nella stessa direzione si muove il sostanziale contenimento dei prezzi dell’energia. Inoltre, un ruolo decisivo nel contenimento dell’inflazione ha svolto il rafforzamento di alcune monete, a cominciare dall’euro che ha acquisito una solida credibilità internazionale, certamente più durevole rispetto alle deboli valute degli Stati europei prima dell’unificazione monetaria.

C’è infine un ulteriore dato che non ha a che fare con la scomparsa dell’inflazione e contribuisce a tenere bassissimi i tassi d’interesse. I debiti pubblici di Stati ritenuti solidi, denominati in monete forti come l’euro, sono considerati beni rifugio in cui mettere al riparo risorse altrimenti poste a repentaglio da alcuni evidenti fattori di instabilità planetaria, in particolare dalla guerra dei dazi fra Usa e Cina, dalla surreale Brexit, dalla esplosiva situazione di Hong Kong, e dalle tensioni che si stanno riaccendendo nel Golfo persico e in Iran. Di fronte a scenari incerti, gli investimenti in azioni e obbligazioni rischiano di risultare insidiosi, con impennate e cadute repentine, rispetto alle quali l’acquisto di titoli pubblici può costituire un’efficace protezione.

Certo un mondo dove gli Stati possono indebitarsi praticamente gratis dovrebbe sfruttare bene una simile prerogativa e al tempo stesso guardarsi bene dai pericoli connessi. L’opportunità può consistere nell’usare la leva del debito per finanziare gli investimenti necessari a far ripartire la ripresa, avendo cura di inserirvi i costi della transizione ecologica, tanto indispensabili per salvare l’ambiente quanti estremamente elevati e non realizzabili solo con la copertura degli strumenti fiscali. In tal senso, se non esiste un pericolo d’inflazione e i tassi sono negativi, diventa praticabile rivedere i parametri del 3% e del 60% nel rapporto deficit e debito con il Prodotto interno lordo (Pil), evitando inutili leggi di bilancio in nome dell’austerità.
I rischi da scongiurare consistono nell’idea che con tassi negativi si debba tornare a drogare i mercati iniettando dosi massicce di liquidità, destinate a far ripartire ondate di speculazione finanziaria. Con tassi negativi, infine, diventa difficile la vita delle banche che vedono erosi i margini di profitto e dunque faticano a svolgere il loro ruolo di cinghia di trasmissione del credito. Appaiono indispensabili quindi politiche economiche in grado di eliminare il pericolo che indebitarsi gratis sia per gli Stati solo uno mezzo di mero consenso. In questo senso, nel caso italiano, per sfruttare l’insolita fase di tassi bassissimi, serve una prospettiva che smetta di ragionare in politichese e di praticare la propaganda elettorale permanente per costruire invece una politica di investimenti, materiali e immateriali, di ampio respiro temporale.

Università di Pisa

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