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Stati generali della lotta alle mafie: l’agenda che abbiamo davanti

Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando agli Stati Generali della Lotta alle Mafie del novembre scorso a Milano

Il crimine organizzato è diventato impresa e si è globalizzato, accrescendo il suo potere grazie alla corruzione. Contrastarlo è un dovere civico

Tratto da Altreconomia 200 — Gennaio 2018

“La mafia non ha vinto ma non ha nemmeno perso”. Ha esordito così Andrea Orlando, ministro della Giustizia, aprendo i lavori degli Stati generali della lotta alle mafie svoltisi a Milano a fine novembre e articolati in 16 tavoli tematici. A 25 anni dalle stragi di Capaci e di Via d’Amelio e a 35 da quelli dell’approvazione della legge Rognoni-La Torre, il consenso sociale verso i mafiosi non si è ristretto. Anzi.

Tramite i social network, ha ricordato Orlando, si inneggia ai mafiosi, in alcuni quartieri si manifesta solidarietà ai boss -“meno sbirri, più lavoro” è stato scritto su un muro a Locri alla vigilia della Giornata nazionale in ricordo delle vittime innocenti delle mafie- si continuano ad intimidire giornalisti e amministratori locali, l’omertà e l’area grigia fatta di insospettabili imprenditori, professionisti, politici, dirigenti e funzionari pubblici al servizio delle cosche, si è diffusa anche al Nord, nella non piena consapevolezza di un pezzo importante di società civile.

A fronte di questo scenario il ministro ha affermato che sulla lotta alle mafie ci giochiamo la capacità di sviluppo del Paese e della democrazia italiana. Per questo la questione deve essere tra i punti principali dell’agenda di governo. Era da tempo che in Italia non si sentivano pronunciare parole così chiare contro le mafie e la corruzione da parte di un alto rappresentante di governo. A Milano è stato detto chiaramente: la lotta alle mafie non è ancora terminata, nonostante una serie di successi registrati dallo stato negli anni 90 e nei primi Duemila. Anzi, si è fatta ancora più difficile perché il crimine organizzato è diventato impresa e si è globalizzato. Le mafie hanno saputo coniugare tradizione e modernità, sono tuttora radicate nei territori del Mezzogiorno, ma si sono espanse ricorrendo in particolare alla corruzione.

La loro forza sta nella disponibilità di ingenti capitali -frutto in particolare del narcotraffico- e nella capacità di creare e alimentare il consenso sociale non solo attraverso l’esercizio della violenza e dell’intimidazione, ma colmando i vuoti lasciati da una democrazia sempre più in crisi e da una politica sempre più screditata e incapace di offrire speranze per il futuro. I boss offrono servizi alle imprese, gestiscono un welfare parallelo a quello statale, danno lavoro, prestano denaro come le banche e le società finanziarie. E così facendo alterano e danneggiano sensibilmente la qualità della democrazia e delle sue istituzioni, la libera concorrenza sui mercati, la sicurezza degli Stati e delle comunità locali.

28 miliardi: è la “tassa” che ogni anno le imprese del commercio e dei servizi devono pagare a causa di contraffazioni, rapine, estorsioni, spese aggiuntive per la sicurezza. Lo ha affermato Confcommercio in occasione della giornata intitolata “Legalità mi piace”

Che fare di fronte a questo scenario? Occorre, innanzitutto, mantenere alta la capacità di azione sul versante repressivo, rafforzando la cooperazione giudiziaria internazionale, arrestando i latitanti, i capi e i partecipanti ai sodalizi mafiosi e sottraendo loro le ricchezze illecitamente accumulate. Sul versante preventivo serve un’azione chiara e forte da parte della politica. Lo hanno ribadito Marco Minniti, ministro dell’Interno, e Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia. Il primo ha invitato i partiti a sottoscrivere un “patto di civiltà” in cui ci si impegni esplicitamente a non ricercare e a rifiutare i voti dei mafiosi. La presidente Bindi ha sottolineato l’indispensabilità di portare avanti una “cultura della giustizia” che veda come primo attore una politica capace di recuperare rigore, legalità, consenso e autorevolezza, che sia in grado di offrire opportunità e speranze per colmare disuguaglianze sempre più marcate, che sappia selezionare e formare la classe dirigente. È una responsabilità di tutti.

Pierpaolo Romani è coordinatore nazionale di “Avviso pubblico, enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie”.

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