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Stabilità, debito pubblico e banche: se ne parla dopo il 4 dicembre?

L’orizzonte del referendum sulle modifiche costituzionali pare aver congelato l’importanza di ogni altro tema dell’agenda politica ed economica. Ma non è così, e l’atteggiamento del governo rischia di provocare -a partire dal 5 dicembre- seri problemi di tenuta al Paese. L’analisi di Alessandro Volpi

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi e quello della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, al Consiglio d'Europa di fine giugno 2016 - © Palazzo Chigi, Flickr

È ormai certo che esiste una data della fine del mondo, almeno per l’Italia. Si tratta del 4 dicembre, giorno dell’espletamento del referendum confermativo sulle modifiche costituzionali. Fino ad allora sembra che tutto debba essere pensato, e assai congelato, in funzione di tale scadenza, e, allo stesso modo, pare che dopo tale scadenza tutto sia destinato a cambiare. Questa attesa, spasmodica ed elettrica, che sta trasformando una data elettorale nel giorno del giudizio, rischia di produrre però pericolose conseguenze, tanto più pesanti quanto più l’esito referendario spaccherà il Paese in due schieramenti di consistenza analoga e duramente impegnati nella reciproca delegittimazione.
Alcune di queste conseguenze sono assai più evidenti di altre.

1) Esiste una discussione molto animata tra il governo italiano e la Commissione europea in merito alle cifre della Legge di bilancio: una querelle di fatto rimandata a dopo il 4 dicembre, quando si riaccenderà con forza e acquisirà, probabilmente, toni più difficili da gestire rispetto alle attuali schermaglie.
Rivendicare margini di flessibilità per circa 9 miliardi di euro, presentare una manovra retta da diverse “una tantum” sul versante delle entrate e minacciare di non votare il bilancio dell’Unione europea possono risultare atti difficilmente sostenibili al termine di una estenuante campagna elettorale da cui può uscire un Paese spossato.

Il problema principale non saranno, in tale ottica, i decimali in più o in meno, ma il clima che verrà a crearsi in Europa, perché di fronte a un’Italia lacerata sarà più facile per i falchi tedeschi e per i rigoristi nordici e di nuova filiazione europea rimettere in dubbio l’efficacia dell’ombrello protettivo aperto dall’“italiano” Mario Draghi a difesa dei debiti pubblici più traballanti.
Certo, il mandato del presidente della Banca Centrale Europea scade solo nel 2019, ma sono sempre più avvertibili le pressioni perché venga rivisto, in maniera radicale, il quantitative easing, l’inondazione di liquidità che consente di collocare persino i titoli di uno dei più grandi debiti pubblici del mondo a tassi negativi. Se tali pressioni prevalessero, sospinte dall’idea di un’Italia lacerata e dunque incapace di risollevarsi dalla crisi tanto da dover essere abbandonata al proprio destino, allora gli spread, i differenziali rispetto ai titoli più solidi, si impennerebbero rapidamente e il conto degli interessi sul debito italiano tornerebbe a farsi salatissimo.

Esasperare le attese e assegnare alla giornata del 4 dicembre il compito di decidere per intero del futuro dello Stivale potrebbe così provocare la necessità di trovare non solo 15 miliardi per rispettare i parametri europei, bensì oltre 80 miliardi per pagare gli interessi su un debito divenuto nuovamente barcollante. Ciò significherebbe una ventina di miliardi in più rispetto a quanto accade attualmente. Nel 2012, infatti, prima della “cura” salvifica di Draghi il conto degli interessi sul debito italiano era pari a 84 miliardi che sono scesi a circa 75 nel 2015 e che stanno calando ancora nel 2016. Senza un simile, efficace, ombrello i conti pubblici italiani sarebbero davvero in affanno.

2) Rispetto alla linea finora seguita da Draghi, in seno alla Banca centrale europea sta riprendendo forza l’ipotesi di mettere un tetto all’esposizione delle banche sui titoli di Stato, chiedendo garanzie onerose alle stesse banche che li detengono. Ciò sarebbe molto preoccupante per un sistema bancario come quello italiano imbottito di titoli del debito pubblico nostrano, in molti casi assai sottocapitalizzate e costrette nei prossimi mesi ad importanti aumenti di capitale, a cominciare da quello, veramente cruciale, del Monte dei Paschi.
In questo senso, sia sul versante della “manutenzione” del debito pubblico, sia su quello degli istituti di credito, non esiste alcuna autosufficienza italiana, e la narrazione di un possibile scacco all’Europa, da parte del nostro Paese, può condurre verso sentieri scoscesi. Risulta assai insidioso anche utilizzare alti patronage internazionali per incidere sul voto referendario, perché rischiano di scatenare, in Europa, ulteriori tensioni.

È molto probabile che proprio il 5 dicembre sarà la data di avvio dell’aumento di capitale di Monte dei Paschi, destinato a protrarsi fino al lunedì successivo, mentre l’8 dicembre si riunirà il Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea per decidere il programma di acquisto dei titoli di Stato. Sempre il 5 dicembre inizieranno le riunioni dei ministri dell’area euro per esaminare le leggi di Bilancio dei vari Paesi. Una congestione di date da cui dipende molto del futuro. Non può esistere un’Italia del prima e del dopo 4 dicembre perché ciò vuol dire giocarsi tutto in una mano sola: una scommessa non tollerabile per un Paese che cresce poco più di mezzo punto percentuale, attraversato da folate di antipolitica e da rigurgiti di razzismo.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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