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Economia / Opinioni

Sovranismo o “proclamismo”? Il governo alla prova

Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. Sullo sfondo, il titolare dell'Economia, Giovanni Tria

Mentre si dilatano i tempi per la messa a punto dei provvedimenti più costosi -flat tax e cancellazione della legge Fornero- il governo Lega-5Stelle deve fare i conti con le conseguenze del nuovo decreto sul lavoro verso il proprio elettorato. L’analisi di Alessandro Volpi

Esiste un legame evidente che tiene insieme il “Decreto dignità” con le posizioni assunte dal governo Conte in materia di immigrazione e con le ventilate ipotesi di adozione di misure protezionistiche. Si tratta della visione di un necessario intervento dello Stato inteso come soggetto regolatore, capace di incidere sulle dinamiche del mercato e degli spostamenti di popolazione. Uno Stato però che regola e interviene senza mettere risorse finanziarie aggiuntive rispetto alle più consuete e da anni coltivate politiche ordinarie di bilancio. Sembrano dilatati infatti i tempi dei provvedimenti più costosi che impattano sulla finanza pubblica e che facevano parte dei programmi elettorali, anticipati ora proprio dalle regole volte a combattere la precarietà dell’occupazione e da quelle sulla chiusura dei porti italiani alle Ong.

In altre parole pare prendere corpo, in maniera molto vistosa, uno statalismo a costo zero, assai improbabile ma indispensabile per tenere vivo il consenso ideologico senza mettere mano a impopolari manovre finanziarie che sarebbero imposte dalle spese del reddito di cittadinanza e dalla riduzione di gettito scatenata dalla flat tax. Uno statalismo sovrano, a cui ha aderito persino la Lega federalista, tanto pesante sul piano del messaggio gridato quanto debole sul versante dell’impatto sui conti pubblici: in tal modo tutto cambia perché nulla cambi davvero almeno in termini di bilancio statale.

Così, la faccia truce rivolta all’Europa non si traduce in una vera guerra sui vincoli europei perché, di fatto, i saldi dei conti non si toccano e l’antieuropeismo si esercita solo in campi marginali rispetto alle preoccupazioni di tenuta dell’euro. In una simile ottica, anche misure come l’emissione di titoli del debito pubblico riservati ai soli cittadini italiani per eliminare gli spread si riducono a originali sparate che si è convinti nessuno prenda veramente sul serio. Così come sembra si dia per scontato che pochi, in giro per l’Europa, possano prendere sul serio una modifica della riforma pensionistica che costerebbe dagli 8 ai 30 miliardi di euro. C’è il decisionismo sovranista del “proclamismo” e c’è il timido realismo del ministero dell’Economia che chiede tempo e auspica passi oculatissimi in materia di finanza pubblica.

Questo statalismo tutto retorico e un po’ straccione genera però due effetti reali. Il primo è quello sul Pil: l’insieme delle regole statalistiche come impatterà sui meccanismi di produzione della ricchezza nazionale? Dopo anni di deregolamentazione del mercato del lavoro e dopo tante sbornie di flessibilità, come reagiranno gli operatori economici a una stagione di improvvisa sobrietà contrattuale, che pare destinata ad aprire nuove e da tempo sopite conflittualità tra impresa e lavoro, non superabili con il solo richiamo agli interessi delle aziende più piccole care, alla maggioranza giallo-verde? Le imprese che hanno dato fiducia al vento leghista, sperando in meno tasse e più sicurezza, come valuteranno l’irrigidimento delle maglie nell’utilizzo dei lavoratori? È davvero difficile immaginare, alla luce delle nuove norme, come si ri-articoleranno le catene di produzione del valore su cui incidono non poco anche le misure contro la delocalizzazione.

In questo senso, il “Decreto” dignità costituisce un banco di prova molto più concreto di quanto, forse, non immaginano neppure i suoi promotori; sarebbe auspicabile che tale prova non venisse stravolta con il ricorso a elementi “dopanti” come condoni tombali o rottamazioni erariali, finalizzate a creare un consenso artificiale nella parte meno sana del mondo imprenditoriale.

Il secondo effetto è relativo alla pericolosa retorica dell’internazionalismo degli statalismi che immagina una comunità di regolatori nazionali gelosi della propria sovranità e dunque impegnati a difenderla nei minimi particolari, costruendo sull’ipertrofia delle regole una forza del tutto apparente e quindi insidiosa in termini reali. Da ciò potranno derivare infatti tensioni continue tra i vari Paesi e una accentuazione costante delle intolleranze come dimostrano le reciproche accuse sui morti del Mediterraneo. Provare a supplire alle difficoltà, inevitabili, nell’attuazione di programmi molto onerosi in termini finanziari facendo appello a profondi cambiamenti nella retorica delle regole, che mirano a ridare fiato alla centralità dello Stato “forte”, rischia di aprire scenari spinosi e sconosciuti.

Università di Pisa

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