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Economia / Opinioni

Lo sconto “anomalo” tra Usa e Cina e le conseguenze sui mercati

Le tensioni tra i due Paesi sono dominate dalla capacità politica statunitense di condizionare i cinesi, attraverso la moneta e attraverso il blocco tecnologico. In un simile scenario Pechino dovrà cercare interlocutori politici, prima ancora che economici, per fronteggiare l’offensiva. L’analisi di Alessandro Volpi

© John-Mark Smith - Unsplash

Due aspetti molto particolari caratterizzeranno l’economia internazionale nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni. Tali aspetti tenderanno a determinare un profondo cambiamento nel funzionamento dei mercati così come li abbiamo conosciuti finora. Il primo è costituito dalla natura decisamente anomala dello scontro tra Stati Uniti e Cina. Tra i due Paesi è in atto infatti una guerra commerciale che mette fuori gioco ogni traccia di concorrenza e competizione basate sulla reale capacità di innovare, in genere tratto dominante nelle dinamiche del capitalismo, e sul concreto andamento dei prezzi. La partita è invece tutta politica e determinata da alcune circostanze specifiche. Non era mai successo nella storia economica contemporanea che la seconda potenza mondiale dipendesse in toto dalla moneta della prima potenza a cui intende fare concorrenza. La moneta della Cina per gli scambi internazionali è il dollaro e dunque la politica monetaria cinese, fondamentale per le sorti della sua economia, viene decisa a Washington dalla Federal Reserve. In tal senso la spazio di manovra dell’ex impero celeste appare molto angusto anche alla luce dei costanti rischi di svalutazione dello yuan, una moneta troppo debole per una grande potenza.

Non era mai successo neppure che le fortune di una grande azienda dipendessero in maniera pressoché totale dalle decisioni politiche di un altro Paese. La scelta di Google di non consentire a Huawei di utilizzare il proprio sistema operativo dopo che l’amministrazione Trump ha deciso di mettere al bando la società cinese, perché pericolosa per la sicurezza nazionale, rappresenta un caso del tutto inedito di geopolitica in cui, appunto, la politica pesa molto di più delle ragioni di mercato.
Huawei è il secondo produttore al mondo di telefonini e quindi la decisione di Google di non consentire l’installazione di Android su milioni di smartphone è chiaramente punitiva per la stessa Google. Ma la “necessità” di avere un buon rapporto con la bellicosa presidenza Trump la muove in tale direzione pur costringendola a rischiare molto sui mercati e in borsa.

Le tensioni fra Cina e Usa sono quindi dominate dalla capacità politica statunitense di condizionare i cinesi, attraverso la moneta e attraverso il blocco tecnologico, in modo tale da evitare la competizione aperta sui mercati. È naturale che in un simile scenario anche la Cina dovrà cercare interlocutori politici, prima ancora che economici, per fronteggiare l’offensiva Usa di cui i dazi sono solo il risultato finale e in tal modo si alimenterà un sistema, ancora una volta molto politico, di scambi bilaterali.

Del resto la stessa struttura di numerose aziende cinesi, a cominciare da Huawei, è assai “politica”, presentando un azionariato diffuso e di fatto sotto il controllo pubblico. La famiglia Ren detiene circa l’uno per cento delle quote mentre il resto è distribuito fra i quasi 97mila dipendenti che in realtà rispondono ad un comitato interno governato dal partito comunista secondo una logica in cui l’adesione al regime viene prima del rispetto delle regole di mercato. Stati Uniti e Cina, in maniera diversa, paiono ormai davvero al di fuori del capitalismo democratico.

Il secondo aspetto è legato alla rapida spersonalizzazione degli scambi finanziari dominati da algoritmi che non hanno bisogno della partecipazione degli operatori umani. Anche da questo punto di vista la nozione consueta di mercato viene di fatto stravolta. Robot e software governano il 50 per cento del gigantesco settore dei derivati, e delle azioni, il 30 per cento di quello delle valute e una percentuale non trascurabile dei titoli di Stato. Il trading finanziario è sempre più dominato da operazioni automatiche, costruite sull’utilizzo di milioni di dati che affrontano la complessità e la velocità delle scelte senza l’intervento dell’uomo. Un tale sistema sconta però il duplice rischio degli incidenti inevitabili e delle manipolazioni che possono essere poste in essere soprattutto dai grandi colossi finanziari capaci di rappresentare, per l’intelligenza artificiale degli algoritmi, una soluzione più remunerativa di altre.

Se poi a questo dato si aggiunge il sostanziale monopolio posseduto da poche società di revisione contabile a livello planetario, risulta chiaro che il mercato inteso come luogo di migliore e più razionale definizione dei prezzi non esiste più, sostituito da impersonali situazioni di privilegio speculativo in mano a pochissime multinazionali più forti ancora rispetto a quanto avveniva prima della crisi del 2008.

Il peso decisivo della politica e lo strapotere dei big della finanza favorito dall’automazione degli algoritmi stanno conducendo l’economia mondiale in un territorio ignoto; l’Europa in tale processo può avere un ruolo importante se riuscirà a imbastire una politica comune in cui il suo ricco mercato possa diventare la condizione per mettere delle regole democratiche e per chiedere strumenti di vigilanza che contrastino la turbofinanza e gli statalismi delle superpotenze economiche. Per queste ragioni, sarà assai rilevante capire chi farà il presidente della Commissione europea e, soprattutto, della Banca Centrale.

Università di Pisa

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