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Soccorsi nel Mediterraneo nel 2019: l’inazione dei mezzi dell’Unione europea e il supporto ai respingimenti in Libia

Nei primi nove mesi di quest’anno, su 4.862 naufraghi salvati nel Mediterraneo Centrale e condotti in Italia, i mezzi dell’Unione europea (dall’operazione SOPHIA all’Agenzia Frontex) non ne hanno soccorso nessuno. Almeno 6.807 invece i respingimenti in Libia operati dalle “autorità libiche”. Parte di questi sarebbero stati supportati da mezzi di SOPHIA. La denuncia di Riccardo Gatti, direttore di Open Arms Italia

© CSDP EEAS

Nei primi nove mesi di quest’anno, su 4.862 naufraghi salvati nel Mediterraneo Centrale e condotti in Italia, i mezzi dell’Unione europea non ne hanno soccorso nessuno. Non l’hanno fatto gli assetti dell’operazione EUNAVFOR MED SOPHIA -peraltro priva di navi- e nemmeno quelli di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. È quanto emerge dall’ultimo bollettino trimestrale sulle “Attività Search and Rescue nel Mediterraneo centrale” pubblicato dalla Guardia costiera italiana, che dà conto di un altro elemento: i 6.807 respingimenti in Libia operati dalle sedicenti “autorità libiche” nello stesso periodo (sempre secondo la nostra Guardia Costiera). Parte di questi, secondo le organizzazioni non governative ancora attive nell’area, potrebbero essere stati supportati da mezzi dell’operazione SOPHIA.

Riccardo Gatti, direttore di Open Arms Italia, comandante della nave Astral e capo missione di OA, è a Siracusa, in procinto di uscire in mare per riprendere le operazioni di soccorso. È testimone di quella che definisce una “strategia chiara”.

Dov’è oggi Open Arms e che cosa state facendo?
RG Con Open Arms siamo fermi a Siracusa, abbiamo un piccolo problema tecnico a una delle due imbarcazioni Rhib. Siamo arrivati qui dopo essere usciti da Napoli e dopo essere andati in zona SAR. All’arrivo del brutto tempo, dopo aver verificato che non ci fosse nessuno in zona, ci siamo riparati qui in Sicilia. Da qui a due giorni infatti ci sarà bruttissimo tempo. Nonostante le condizioni non ottimali volevamo uscire comunque ma questo piccolo problema tecnico ce lo impedisce al momento: rimaniamo in stand-by. Se ci dovessero essere degli avvisi partiremo e da quel momento non potremmo più tornare in porto almeno fino al 27 dicembre. Dovremo cioè cercare di metterci al riparo più vicino possibile alla Libia o alla Tunisia.

A quando risale l’ultima operazione di soccorso?
RG L’ultima operazione che abbiamo fatto con Open Arms risale a circa un mese fa, quattro o cinque giorni prima dello sbarco che è poi avvenuto a Taranto. La nave Astral invece è a Barcellona per svolgere campagne di sensibilizzazione, per due settimane terrà le “porte aperte”.

Com’è oggi la relazione con il Centro di coordinamento di Roma?
RG La relazione con il Centro di coordinamento delle operazioni di soccorso di Roma è pressoché inesistente, nemmeno ostile, non esiste proprio. Ogni movimento che facciamo e che ci vede coinvolti in operazioni di soccorso lo comunichiamo sia all’Italia, sia a Malta e sia alla Spagna. E mettiamo in copia anche la Libia. Normalmente non riceviamo alcuna risposta. Ogni volta che inoltriamo una comunicazione relativa a un luogo sicuro (place of safety, POS) lo facciamo a seconda della distanza dell’operazione di soccorso all’Italia o a Malta. Con la Libia funziona così: inviamo una mail per conoscenza. L’ultima volta ci hanno risposto dicendo di andare a Tripoli e ovviamente abbiamo detto di no.

Perché questo “passaggio” con le cosiddette “competenti autorità libiche”?
RG Formalmente i governi europei vogliono far credere che esista un’autorità libica. È per questo che noi chiediamo un porto alla Libia e ci aspettiamo che questa “gestisca” un altro porto, di certo non Tripoli. Cosa che evidentemente non fa. L’ultima volta, quando cioè abbiamo risposto negativamente alla indicazione libica di recarci a Tripoli dopo l’operazione di soccorso, che avrebbe significato riportare i migranti indietro, ci ha risposto subito l’Italia sostenendo di aver inoltrato la richiesta reiterata al ministero dell’Interno. Per questo parlavo di una relazione inesistente e non ostile: appena possono, da Roma, cercano di scaricarsi di dosso qualsiasi responsabilità.

In merito all’operatività delle milizie libiche che cosa osservate oggi?
RG È un buco nero. L’ultima volta che abbiamo effettuato il soccorso siamo rimasti tre giorni in operazioni di ricerca perché i “target” erano numerosi. Bene, in quell’occasione ci siamo resi conto che un aereo belga impiegato nell’ambito della missione europea SOPHIA avrebbe probabilmente fornito indicazioni ai libici sulla posizione di un target. Li avrebbe di fatto guidati. Da SOPHIA infatti partirebbero chiamate dirette solo ai libici, riparandosi dietro al fatto che quelle sarebbero le normative legate alla “responsabilità” del coordinamento dei soccorsi. Noi in realtà abbiamo sentito e registrato quell’aereo belga che ha diretto e indicato le posizioni -“vai a destra, vai a sinistra, vai avanti 10 miglia”- ai libici. Sono coinvolti nei respingimenti.

Confermate quindi che l’impegno degli assetti aerei di SOPHIA sia anche quello di “guidare” i libici?
RG Lo sforzo di SOPHIA e dei governi in questo strano appoggio alla cosiddetta guardia costiera libica è abbastanza rilevante. È quello che vediamo e percepiamo.
L’operazione SOPHIA non svolge alcuna operazione di soccorso perché non ha le navi. Ed è qualcosa di cui si lamentano loro stessi: per poter fare operazioni di contrasto al traffico di persone dovrebbero poterne avere, e invece non ce l’hanno. L’Agenzia Frontex è anche lei inchiodata a “zero” soccorsi per il semplice fatto che rimane a 60 miglia dalla costa, cioè resta lontano, e quando invece ha imbarcazioni vicine cerca di rimanerne a debita distanza e di non incappare nell’obbligo di soccorso. È una strategia precisa: le forze militari o istituzionali non devono trovarsi in situazioni di obbligo di soccorso onde evitare uno scontro burocratico e politico.

Parliamo del codice di condotto riportato in auge dalla ministra dell’Interno Lamorgese.
RG Negli incontri tenuti nelle scorse settimane abbiamo ribadito al Viminale un concetto semplice: ci spieghino quali sarebbero le condotte delle Ong che devono essere messe sotto la lente e l’osservanza di un codice. Qual è l’infrazione del fatidico “codice Minniti” e soprattuto perché vogliono imporci un codice di condotta quando abbiamo dimostrato di essere quelle entità che rispettano le normative e le convenzioni internazionali, a differenza degli altri attori in mare, a partire dai governi europei. Se nelle prossime riunioni, a partire da gennaio, dovessero ancora dal Governo mettere sul tavolo il tema del “codice”, abbiamo già detto che non ci andremo. D’altra parte va riconosciuta un’apertura da parte del ministro a cercare un positivo confronto.

Come giudichi questa “calma apparente” sul tema del soccorso nel Mediterraneo centrale?
RG Non c’è più qualcuno che grida all’invasione. È una cosa positiva ma c’è il rischio che questa “calma” venga strumentalizzata nascondendo, come sempre è stato fatto, ciò che succede nel Mediterraneo centrale. È in corso un voluto oscuramento informativo su quanto accade in Libia. E si festeggiano i ricollocamenti, quando dovrebbe essere qualcosa di automatico e in funzione da un bel pezzo.

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