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Esteri / Reportage

Siria: le donne al centro dell’auto-governo nella regione del Rojava

Reportage dal territorio stretto tra il governo di al-Assad, Daesh e le milizie irachene. Malgrado le difficoltà economiche, l’area del Kurdistan siriano -che dal 2012 è sotto il controllo dei curdi del Partito dell’unione democratica- vive una situazione di relativa stabilità ed eguaglianza rispetto alle zone limitrofe

Tratto da Altreconomia 198 — Novembre 2017
Nel villaggio di Jinwar, nel Nord della Siria, le donne lavorano insieme per la costruzione di case, scuole e spazi comuni (© Arianna Pagani)

È un giovedì d’inizio settembre e già di primo mattino, la temperatura sfiora i quaranta gradi. La prima tappa obbligatoria per raggiungere il Kurdistan siriano è il controllo da parte dell’autorità curdo-irachena a Faysh Khabur, situato sul bordo Nord occidentale del Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dalla linea di confine che separa Iraq, Siria e Turchia.

S’impiegano circa tre ore da Erbil, in auto. Si passa da Dohuk, città cresciuta a dismisura, come il resto del Kurdistan iracheno, con enormi palazzi di cemento armato che disturbano la vista. Dal finestrino di un vecchio taxi, si scorgono altipiani montuosi color ocra, attraversati da tralicci dell’elettricità. Più vicino, file interminabili di tende impolverate, disposte l’una accanto all’altra, segnano la presenza di nuove città, abitate da sfollati ezidi, fuggiti dalle montagne del Sinjar, conquistato dallo Stato Islamico nell’estate del 2014.

All’ombra di una copertura in lamiera, centinaia di famiglie attendono la convalida dei propri documenti. Servono settimane per ottenere tutti i permessi e per oltre un anno è stato interdetto l’ingresso ai giornalisti. Appese all’esterno, sventolano le bandiere curde con il sole al centro, mentre negli uffici doganali, la faccia di Massoud Barzani, presidente dell’entità autonoma curda e leader del Partito democratico curdo (PDK), riempie le pareti ingiallite. I controlli e le domande sono rigidi. Senza una buona motivazione non si passa.

Il confine tra il Kurdistan iracheno e quello siriano è un ponticello di ferro per camion e automobili. I civili attraversano il Tigri, fiume sacro e millenario, fonte di civiltà e di dispute geopolitiche, con una barchetta a motore. Su una di queste, due anziane donne trasportano elettrodomestici, sacchi di cibo, bagagli e ceste cariche di ortaggi verso la Siria. Il valico di frontiera, aperto a intermittenza, è l’unica porta di ingresso legale per tutte le merci e per il passaggio delle persone, dal Kurdistan iracheno a quello siriano, circondato quest’ultimo da turchi, regime siriano e Stato Islamico.

L’isolamento della Siria del Nord, o più semplicemente Rojava, lo si comprende dalle prime parole di Ossama M., fixer e autista di fiducia. “Le persone pensano a come sopravvivere, a come trovare il diesel, il pane. È difficile trovare pezzi di ricambio, per non parlare di medicinali e attrezzature -spiega-. Si sono moltiplicati i commercianti di guerra che trafficano benzina, persino cemento e acciaio”.

Sulla strada che conduce verso Amuda, il paesaggio architettonico è opposto a quello curdo iracheno. Le case basse, in mattoni, senza intonaco si alternano a botteghe alimentari. Animali allo stato brado occupano i campi circostanti.

Anche nel Kurdistan siriano i controlli sono rigidi da parte delle asayish (la polizia locale), ma si respira accoglienza e ospitalità nei confronti degli stranieri. “Siete le benvenute nel Rojava: potete rimanere quanto volete”, dice il responsabile della stampa. Lui fa parte del Partito dell’unione democratica (PYD) e racconta di essere stato arrestato diverse volte durante il regime degli Assad, perché sostenitore della causa curda.

Dal 2012, da quando il governo di Bashar al-Assad, impegnato ad Aleppo, ha ritirato l’esercito dalle aree a maggioranza curda del nord, il Partito dell’unione democratica (PYD), insieme alla sua ala militare, le Unità di protezione popolare (YPG) e sostenuto dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ha assunto il controllo del Kurdistan siriano occidentale. Da allora, il PYD controlla e gestisce l’enclave abitata dai curdi, il cantone della Gazira, Kobani e Afrin e nel 2013 ha costituito l’amministrazione autonoma curda del Rojava.

Nel cuore del Rojava, la maggior parte delle foto di Bashar al-Assad, è stata rimossa. Al loro posto sventolano le bandiere verdi e gialle con la stella rossa delle YPG e YPJ, le foto dei martiri caduti in battaglia e la faccia sorridente di Abdullah Ocalan.  Il progetto curdo-siriano si presenta come un modello alternativo a quello del Kurdistan iracheno e al governo centrale di Assad. I teorici del cosiddetto “confederalismo democratico”, ispirato dagli scritti di Ocalan, a sua volta influenzato dall’anarchico Murray Bookchin, si propongono di abbattere i confini nazionali attraverso un progetto democratico dal basso, fondato su strutture orizzontali di autogoverno, che coinvolgano tutte le comunità della regione. Secondo questi principi, le donne sono scelte come leader della comunità, il rispetto dell’ambiente è fondamentale a tal punto da essere presente nelle leggi e la democrazia diretta è resa esecutiva nelle strade.

In una base militare, alle porte di Amuda, Nori Mahmoud, portavoce dello YPG spiega com’è organizzato questo sistema: “In ogni città c’è un civil council suddiviso in commissioni che si occupano di acqua, sicurezza, scuola, ambiente, uguaglianza di genere, ma in ogni strada c’è un anche un comitato di quartiere. Noi non siamo l’autorità, la popolazione si auto governa. In ogni territorio liberato, cerchiamo di creare un modello aperto e inclusivo con le comunità arabe, assire, turcomanne -afferma il militare-. Se partiamo dall’inizio, noi abbiamo scelto la terza strada, né con il regime, né con i ribelli. Qui, (nel Kurdistan siriano, ndr) abbiamo cercato di proteggere le persone e di garantire loro dei diritti. Volete sapere se vogliamo l’indipendenza? No, non la vogliamo. Non crediamo nei confini. Crediamo che tutti debbano avere i propri diritti, come esseri umani e questo è ciò che chiamiamo razzismo positivo”.

Donne, pratiche mutualistiche e ambiente
A pochi chilometri da Amuda, le parole di Nori Mahmoud prendono forma. Jinwar è un villaggio ecologico che accoglierà donne, vedove, single o che rifiutano l’idea della famiglia classica. Le ventuno case, costruite in paglia e fango, sono state costruite da altre donne, arabe e curde, in fuga dall’Isis. “Le strade possibili per le donne non sono solo quelle del matrimonio, del lutto a vita o rinchiuse in casa”, spiega Romet Heval, membro dell’accademia di Jinealogia. “Dobbiamo sconfiggere questa mentalità patriarcale ed eliminare l’Islam dalla vita politica affinché sempre più donne possano raggiungere la piena autodeterminazione”. Il progetto prevede un orto e una cucina comunitaria, uno spazio di aggregazione per le assemblee, un edificio per le piante medicinali, per attività di micro imprenditoria artigianale e un’accademia di Jinealogia, la scienza delle donne.

La Jinealogia è una nuova scienza (jin, in curdo significa donna), che smonta il concetto dell’homo oeconomicus come attore dominante delle relazioni sociali e mette al centro la donna e l’ambiente.

“Le donne in quest’area hanno dimostrato grande coraggio e forza sul campo di battaglia ma è importante che siano al centro della costruzione e dell’organizzazione della società. Dal punto di vista etico, la donna è molto più responsabile dell’uomo. Lei è quindi particolarmente adatta ad analizzare, determinare e decidere sugli aspetti buoni e cattivi dell’istruzione, l’importanza della vita e della pace, la malignità e l’orrore della guerra e su misure di adeguatezza e di giustizia. Per questo l’accademia prevede corsi in economia, demografia, etica ed estetica, storia, ecologia e salute”, conclude Romet Heval.

Se è vero che il confederalismo democratico e il modello della Federazione della Siria del nord è nato per aver approfittato del caos e della guerra, è anche vero che questa regione autonoma è uno dei pochi lati positivi che emerge dalla tragedia della rivoluzione siriana. Si sono avviate forme di economia comunale e alternativa basate sulle cooperative animate da principi legalitari, i cui profitti sono divisi tra i soci; la partecipazione della donna è un aspetto caratterizzante di questo sistema comunitario, solidale ed ecologico; l’introduzione del matrimonio civile e l’abolizione della poligamia sono segnali di uno sviluppo positivo.

Tuttavia, come spiega Andrea Glioti, collaboratore di Limes e redattore di SyriaUntold (syriauntold.com), la sopravvivenza del Rojava nel lungo periodo è messa in discussione da sfide significative, legate alla vittoria di Assad e all’autonomia che sarà concessa al Rojava. “Allo stato attuale, è irreale che il regime possa riconquistare questa regione, fuori dal suo controllo. Si dovrà, pertanto, trovare un compromesso, vista la presenza dei russi ad Afrin e di basi militari americane che hanno l’obiettivo di restare. Ma quanto di questa dimensione libertaria del Rojava potrà essere mantenuta, quando si scenderà a compromessi con il regime e con gli Usa?”, si domanda l’esperto.

Altra questione da mettere in discussione è l’inclusione della popolazione e la ricezione dell’esperimento in contesti più tribali. Dal 2015, le YPG fanno parte delle Forze Democratiche Siriane (SDF), una piattaforma militare composta da milizie curde, arabe, siriaco-assire e turcomanne, sostenuta dagli americani, che ha cacciato l’Is dai vasti territori tra la frontiera turca e il fiume Eufrate, fino ad assediare la città di Raqqa e conquistare molte zone a maggioranza araba, gestite storicamente da clan e tribù.

“Una delle sfide maggiori sarà il grado di democraticità e inclusione di questo esperimento di fronte ai cambiamenti demografici che si sono instaurati in Siria perché, per ora, coesistono due livelli di prassi politiche, una più idealista e l’altra pragmatica ma meno inclusiva”, conclude Andrea Glioti.

Avvicinandosi ai villaggi liberati, alle porte di Raqqa (a sua volta liberata dalle milizie curde il 17 ottobre scorso), l’Eufrate e i suoi rivoli trasformano il paesaggio brullo e arido in fertile e rigoglioso. Si scorgono bambini anneriti pascolare i greggi, tende di varie tribù beduine, mercati di baratto e motociclette che zigzagano sulla strada danneggiata dai pesanti veicoli militari e dai bombardamenti della coalizione. Le donne sono curve nei campi di burgul, mentre gli uomini trafficano mazout (un tipo di gasolio), nuovo business di guerra. Veicoli carbonizzati, edifici accartocciati, case e ponti bombardati segnano la vicinanza alla linea del fronte. In un edificio sulla seconda linea, un giovane ragazzo arabo, Saleh Mohammad, combatte a fianco di altri soldati curdi delle FDS. “Per me non c’è nessuna differenza tra curdi e arabi. Siamo i figli di questa società. Il primo obiettivo è combattere contro l’ingiustizia e liberarci dall’Is poi, per il futuro, si vedrà”.

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