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Addio Shell, due importanti musei olandesi rinunciano alla sponsorizzazione

Dopo due mesi di proteste da parte di organizzazioni ambientaliste e la crescente pressione dell’opinione pubblica, il Museo Van Gogh di Amsterdam e il Mauritshuis dell’Aja hanno deciso di rinunciare a finanziamenti della multinazionale petrolifera. Due anni fa il caso della Tate Gallery di Londra e della corporation BP. Un argine alla strategia di marketing nota come “art washing”

Interno del Mauritshuis museum, Ronald Tilleman
 © Mauritshuis, Den Haag

Il Museo Van Gogh di Amsterdam e il Mauritshuis dell’Aja non beneficeranno più del denaro della Shell, il gigante petrolifero anglo-olandese. Dopo mesi di proteste e campagne orchestrate da organizzazioni ambientaliste dei Paesi Bassi, come per esempio Fossil Free Culture, i due musei e la multinazionale hanno infatti deciso di interrompere per “mutuo consenso” il rapporto che li legava. Il Van Gogh ha ribadito che quella con la Shell è stata “una collaborazione proficua”, durata ben 18 anni. Meno, solo sei anni, è andato avanti il matrimonio tra l’oil corporation e il Mauritshuis, dove sono custoditi i famosi dipinti “La ragazza con il turbante” di Jan Vermeer e “La lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt. Singolare che nell’ultimo rapporto annuale dello stesso Mauritshuis sia presente un passaggio in cui si definisce “cruciale per il futuro del museo” il contributo economico messo a disposizione dalla Shell.

Tutto ciò a testimoniare quanto fosse rilevante il ruolo giocato dalla compagnia -che al Museo Van Gogh aveva finanziato costose ricerche sui dipinti realizzati fra il 1880 e il 1890 dal celeberrimo artista olandese- e come sia stata forte la pressione pubblica per mutare lo stato delle cose. Pressione che aveva dato i suoi frutti già nel recente passato anche in un altro Paese europeo. Nel 2016, la Tate Gallery di Londra aveva interrotto una “collaborazione” di 26 anni con l’azienda petrolifera britannica BP. Il British Museum e la National Portrait Gallery, ancora legate a BP, continuano a essere oggetto di campagne condotte, tra gli altri, da Platform London e dal collettivo “Liberate Tate”. Così come era accaduto in Inghilterra , anche in Olanda la protesta ha preso forme quanto mai originali e incisive, con veri e propri happening artistici all’interno dei musei.

“Attraverso queste performance ‘non richieste’ all’interno di realtà che accettano queste sponsorizzazioni, esponiamo la devastazione ecologica e sociale che l’industria dei combustibili fossili infligge al pianeta e mettiamo a nudo come queste istituzioni culturali siano impegnate a imbellettare la reputazione di aziende come Royal Dutch Shell”, riporta un comunicato dell’organizzazione Fossil Free Culture. L’ultima azione del gruppo si è tenuta presso il Museo Van Gogh lo scorso 9 giugno, al culmine di ben sei settimane di forte sensibilizzazione sul tema. All’interno dell’edificio sono stati srotolati striscioni di 12 metri recanti la scritta “poniamo subito fine all’era fossile”.

Nel 2017, alcuni esponenti di Fossil Free Culture erano stati arrestati al museo dopo che le guardie di sicurezza avevano chiamato la polizia per segnalare la loro performance “Drop the Shell”, durante la quale sette persone avevano sorseggiato del liquido da alcune conchiglie (Shell in inglese vuol dire conchiglia, ndr), mentre un’altra recitava un passaggio di una lettera di Vincent van Gogh a suo fratello incentrata sulla lotta per la sopravvivenza. “I giganti petroliferi sostengono economicamente le istituzioni culturali per ripulire la loro immagine pubblica. Questa strategia di marketing è nota come art washing. Con una piccola fetta del loro enorme budget per le pubbliche relazioni, queste compagnie sono in grado di acquistare una falsa immagine di generosità culturale e sociale -si legge ancora nel comunicato di Fossil Free Culture-. Le loro motivazioni non hanno nulla a che vedere con la benevolenza culturale; è una strategia per assicurare la rispettabilità sociale di cui hanno disperatamente bisogno per continuare le loro attività distruttive”. Val la pena rammentare che secondo il Carbon Majors Report 2017, un centinaio di imprese sono responsabili di ben il 70 per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale dal 1988. Shell, insieme a ExxonMobil e BP, è una delle società con il livello di emissioni più elevato al mondo.

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