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Sguardi e memorie di umanità in fuga. Le storie dei rifugiati accolti, oltre gli stereotipi

Una ricerca sul fenomeno delle migrazioni curata da Cittalia e Sprar ha messo da parte etichette e numeri e restituito dignità alle voci degli interessati. Smontando pezzo per pezzo luoghi comuni consolidati: sui motivi di fuga, sulla condizione di “migrante economico”, sui progetti di vita. Tra gli episodi più ricorrenti riferiti dai migranti ci sono le condizioni disumane dei centri di detenzione in Libia

“Mio padre mi ha detto: ‘Tu sei giovane, io sto male e anche se muoio ormai… Ma tu cerca di uscire da qui, almeno puoi aiutare i tuoi fratelli’. E io allora sono scappato”. Quella di S. -iniziale casuale, 19 anni, nato in Siria e immigrato in Italia- è una delle 137 voci raccolte nel volume “Sguardi e memorie di umanità in fuga”, realizzato dal Servizio centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) e dal dipartimento Studi e ricerche da Cittalia, fondazione di ricerca dell’ANCI.

È un lavoro collettivo che ha messo da parte etichette e analisi quantitative, restituendo il giusto spazio al racconto qualitativo del fenomeno delle migrazioni; costruito con le singole storie e con la potenza delle parole degli interessati. Smontando pezzo per pezzo stereotipi consolidati.
Monia Giovannetti, responsabile del Dipartimento studi e ricerche di Cittalia e co-autrice con Emiliana Baldoni dell’edizione, parla di “lenti diverse” necessarie per centrare due obiettivi: “Restituire una conoscenza più approfondita del percorso biografico dei migranti” e “migliorare la qualità dei servizi resi, rispondendo con maggiore consapevolezza a bisogni ed aspettative collettive”.

Il cuore del lavoro di ricerca è stata l’analisi di 137 interviste ad altrettanti “beneficiari” in accoglienza presso strutture della rete dello SPRAR (35.869 posti occupati a febbraio 2018 su 182.863 posti totali). Non è quindi un saggio scientifico sulle migrazioni ma un “affondo qualitativo” sull’esperienza di asilo, inedito se paragonato ad altri sistemi strutturati di accoglienza. Persone di ventisette nazionalità differenti (67,9% dall’Africa occidentale, 9,5% dall’Africa orientale, 13,9% dall’Asia, e 8,8% da Medio Oriente e Nord Africa) alle quali è stato chiesto di raccontare il proprio contesto familiare di provenienza, il bagaglio formativo, le esperienze di lavoro, i motivi della fuga, la partenza, le rotte percorse, il viaggio verso l’Europa e le criticità incontrate. E poi la fase dell’accoglienza, con l’arrivo in Italia e il percorso di integrazione.

“La parola chiave è eterogeneità -spiega Giovannetti-: eterogeneità delle provenienze, come riflesso/specchio delle attuali presenze nel sistema di accoglienza italiano, ma anche e soprattutto eterogeneità nei vissuti di persecuzione, nelle condizioni socio-economiche di partenza, nell’appartenenza generazionale e nelle modalità di raggiungimento dell’Europa, essendo ormai il viaggio in sé fattore di esposizione a traumi e violenze”. Alcuni luoghi comuni crollano: uno su tutti, il profilo del migrante economico. “Prima di lasciare il Paese di origine -si legge nella ricerca- il 64,9% era complessivamente soddisfatto del proprio tenore di vita”. Come G., 43 anni, afghana, che nel suo Paese faceva la parrucchiera di nascosto perché alle donne era proibito lavorare. L’84% degli intervistati viveva in una casa di proprietà. Questo non significa che lo stato generalizzato non fosse di povertà, anche estrema, ma quel che emerge secondo le curatrici dalle interviste è che “la condizione economica non è fonte di preoccupazione e non può essere assunta in sé come spinta propulsiva alla migrazione”. “La povertà è una delle concause -spiega Giovannetti-, un elemento in più che va a incatenarsi con altri motivi di fuga. Dunque è sempre più vuota di senso la distinzione tra migranti economici e migranti forzati”.

Un’altra fake news riguarda il versante dell’istruzione. Oltre un terzo dei beneficiari, infatti, ha conseguito “livelli medio-alti di scolarizzazione” e il 13,9% -compresa D., 32 anni, dall’Ucraina- ha frequentato l’università.
Il momento centrale dell’intervista è la narrazione delle circostanze di fuga dal Paese di origine. Anche in questo campo dominano molteplicità e multidimensionalità: “Nelle cosiddette ‘migrazioni forzate’ -spiega Giovannetti- i singoli percorsi migratori sono spesso il frutto di un intreccio inestricabile di eventi biografici, familiari e contestuali, che si combinano in varie forme nello spazio compreso tra costrizione e autodeterminazione, uno spazio in cui trova piena legittimità anche il significato soggettivamente attribuito a tali eventi”. Incasellare è difficile e fuoriluogo, perché “in molti casi non è presente una motivazione unica e nettamente definita”. Guerra e conflitti s’intersecano con contrasti familiari, povertà, violazione di precetti culturali o questioni private. Dunque, conclude la ricerca, quelle “categorie analitiche tradizionalmente utilizzate dalla sociologia delle migrazioni come se fossero mutuamente esclusive (migrante economico, profugo, richiedente asilo, rifugiato, migrante forzato, irregolare, vittima di tratta…)” andrebbero considerate criticamente. Così come le speculazioni elettorali infondate.

“Volevo venire in Italia, in quanto il capo del villaggio mi ha detto che l’Italia sarebbe stata la mia fortuna” – M., 31 anni, Senegal

Come affrontare questa frammentazione biografica? Secondo Giovannetti è decisiva “la capacità di ascolto da parte dei soggetti che compongono le commissioni territoriali o il sistema giudiziario per il riconoscimento della protezione internazionale. Cioè la comprensione di quanto sia complesso questo fenomeno. Occorre perciò dedicare attenzione alla storia oggetto dell’audizione, e questo si può fare con una formazione adeguata che sia multidisciplinare e che parta da una conoscenza antropologica, e sociologica oltre ovviamente a quella legale. Per ridurre le distanze tra le astrazioni giuridiche e le complesse biografie dei richiedenti asilo e rifugiati è indispensabile rivedere le modalità di dialogo e confronto per rendere conformi i sistemi di valutazione e dare senso compiuto ai processi decisionali in quanto decisivi nel determinare lo status giuridico di queste persone”.

Nemmeno i “progetti migratori” sono classificabili in maniera secca e le principali rotte seguite sono almeno otto. Solo il 36% degli intervistati intendeva raggiungere definitivamente l’Italia (“Avevo sempre desiderato venire in Italia, ma solo per vacanza, una, due settimane al massimo”, ha raccontato un intervistato siriano di 33 anni). Il 35% nemmeno sapeva dove andare. Il 14,1% voleva restare in Libia (“In Italia sono arrivato perché mi hanno costretto”, ha detto un giovane ghanese di 16 anni) mentre il restante tra Europa e altri Paesi africani. Quel che è evidente, invece, è che i “senza meta”, di fronte a un “evento traumatico o al precipitare di una situazione già compromessa”, sono stati spinti dall’urgenza “impellente” di cercare protezione. Cioè mettersi in salvo. All’inizio è preponderante la quota di chi sceglie di partire mantenendo “un certo potere di negoziazione e di autonomia rispetto alla gestione dello spostamento”: “Sono andato a Karachi dove ho preso contatto con altri sciiti che mi hanno aiutato ad arrivare in Europa. Tramite la comunità religiosa”, racconta un richiedente pakistano di 36 anni. Poi però quella capacità di movimento e la stessa libertà personale “subiscono un drastico ridimensionamento”, specie quando si passa da un’organizzazione di traffico all’altra.

“Innanzitutto dal Ghana al Niger mi hanno chiesto continuamente soldi i poliziotti corrotti. Ho dovuto pagare tantissime volte per poter continuare il mio viaggio, sennò mi avrebbero ucciso. Poi il deserto. Lì ho visto molte persone morire: eravamo circa 500 stipati su un camion e alcuni sono morti schiacciati. Poi quando siamo stati costretti a continuare il viaggio a piedi molti non ce l’- hanno fatta e sono morti di stenti” – M., 16 anni, Ghana

Sulle “criticità incontrate” c’è un tema comune, drammaticamente attuale. “L’episodio più ricorrente -spiega il report- è rappresentato dall’arresto e permanenza nei centri di detenzione in Libia”. Dove sono arbitrariamente rinchiusi “in luoghi malsani e sovraffollati, dove subiscono pestaggi e ogni genere di violenza (incluso l’abuso sessuale) e dove non vi è alcuna possibilità di accedere all’assistenza legale”. “La cosa più difficile e indimenticabile è stata la prigione in Libia -ricorda P., gambiano di 17 anni- sono stato imprigionato per un mese, non so perché. È stato orribile: eravamo 33 persone in una stanza di 12 metri quadrati. Il bagno era uno per tutti ed era indecente. Ci davano solo un pasto al giorno e ogni mattina venivamo picchiati e torturati. Finalmente un giorno, dopo dei lunghi bombardamenti, hanno aperto la cella e hanno rilasciato solo noi africani”.

Resta il rapporto con l’Italia e con il circuito di accoglienza. Come detto, i posti SPRAR -cioè il modello ordinario, sulla carta- sono ancora troppo pochi rispetto al totale degli ospitati (circa il 20%). Ma è interessante notare come i beneficiari intervistati abbiano riconosciuto proprio nello Sprar, e nei suoi standard, un “salto di qualità” rispetto alle esperienze di accoglienza vissute in precedenza (“A Catania dormivamo all’aperto, per strada, per tre mesi senza casa e senza lavoro”, racconta una cittadina eritrea di 35 anni). Sarebbe il caso che gli enti territoriali restii ad attivare progettualità e aprire nuove strutture di questa natura prendessero nota. Anche loro sono tra i destinatari di questa “narrazione” annodata da Cittalia e Sprar. Basterebbe solo alzare lo sguardo e iniziare ad ascoltare 137 voci.

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