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Banca d’Italia, Governo e crisi bancarie. Una sfiducia ipocrita

Lo scontro su Ignazio Visco in tema di crisi del sistema bancario, mancata vigilanza o trasparenza negata nasconde ipocrisie trasversali che riguardano il Parlamento, il Governo e lo stesso istituto di Via Nazionale. E che rimandano al recepimento della direttiva europea sul cosiddetto “bail-in”

Lo scontro istituzionale sulla figura dell’attuale governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, in tema di crisi del sistema bancario, mancata vigilanza o trasparenza negata nasconde ipocrisie trasversali che riguardano il Parlamento, il Governo e lo stesso istituto di Via Nazionale.

Facciamo un salto indietro di due anni e mezzo. È il 26 maggio 2015 e a Roma è in corso l’assemblea ordinaria dei partecipanti a Banca d’Italia. Ignazio Visco prende la parola per le sue “Considerazioni finali” sul 2014. Matteo Renzi è presidente del Consiglio da oltre un anno. “Dall’anno prossimo entrerà in funzione il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie definito a livello europeo -scandisce Visco-. Esso introdurrà importanti innovazioni, incidendo su legislazioni e prassi per la gestione delle crisi, in passato assai differenziate tra Paesi”. Il governatore sta facendo riferimento alla direttiva sul risanamento e sulla risoluzione delle banche adottata nel maggio 2014 da Parlamento europeo e Consiglio. È la numero 59, Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD), impropriamente detta “Direttiva Bail-In”.  Visco è chiarissimo: “Il termine per il recepimento della direttiva […] è scaduto alla fine dell’anno scorso (2014, ndr); dal 1° gennaio del 2016 dovranno essere introdotte nel nostro ordinamento anche le previsioni sul bail-in. È urgente provvedere”.

Il Parlamento è in ritardo. Il recepimento della direttiva avviene solo a luglio, con l’approvazione definitiva da parte della Camera della “Legge di delegazione europea 2014” e l’individuazione di Banca d’Italia quale “autorità di risoluzione”. Rispetto ai 132 gli articoli della direttiva, gli osservatori -e buona parte del ceto politico- si concentrano soltanto sul “bail-in” (la riduzione del valore delle azioni e di alcuni crediti o la conversione di azioni per assorbire le perdite di un istituto), senza accorgersi di una scelta fatta dal Parlamento, lo stesso che oggi contesta Visco per non aver vigilato abbastanza sul “sistema”. Le Camere, in quell’estate, avevano scelto infatti di recepire la direttiva senza avvalersi di una di clausola che poteva fungere da garanzia e salvaguardia che la BRRD aveva previsto come facoltativa.
Articolo 85 della direttiva: “Approvazione ex ante delle autorità giudiziarie e diritti di impugnare le decisioni”. “Gli Stati membri -si legge nella direttiva- possono imporre che una decisione di adottare una misura di prevenzione della crisi o una misura di gestione della crisi sia soggetta a un’approvazione ex ante delle autorità giudiziarie”. Seppur “con urgenza”.
Su proposta del Governo (guidato da Matteo Renzi), il Parlamento -siamo a luglio 2015- preferì scartare l’opzione. Non fu per quella clausola cancellata che il sistema implose, ma è singolare che a tre anni e mezzo di distanza si invochi (o si rimproveri mancata) trasparenza.

Il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco

Ma c’è di più. Il 16 novembre 2015, pochi giorni prima del cosiddetto “decreto salva-banche” (erano Cassa di risparmio di Ferrara, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca delle Marche e Cassa di risparmio della provincia di Chieti), varato di domenica, il governo emana un decreto legislativo di attuazione della direttiva BRRD. Il primo proponente è proprio l’ex presidente del Consiglio. Tra i 107 articoli del testo ce n’è uno intitolato “Segreto”. “Tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso della Banca d’Italia -si legge- in ragione della sua attività di risoluzione sono coperti da segreto d’ufficio anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ad eccezione del Ministero dell’economia e delle finanze nell’esercizio delle funzioni previste dal presente decreto”. E ancora: “Il segreto non può essere opposto all’autorità giudiziaria quando le informazioni richieste siano necessarie per le indagini o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente”. Ma il secondo comma è illuminante: “I dipendenti della Banca d’Italia sono vincolati dal segreto d’ufficio. Nell’esercizio delle funzioni di risoluzione, essi sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente al Direttorio le irregolarità constatate, anche quando assumono la veste di reati”.
Da un lato, quindi, il Governo (guidato da Matteo Renzi) stabilisce che il “segreto” possa decadere solo dinanzi alla richiesta di informazioni ritenute “necessarie” per le indagini da parte dell’autorità giudiziaria, ma contemporaneamente intima che nessun dipendente o soggetto “interessato” possa mai riferire alcuna “irregolarità” -eccetto al Direttorio di Banca d’Italia- anche se questa dovesse assumere “la veste di reato”. Un vincolo di riservatezza che, con un tratto di penna, viene esteso per Banca d’Italia dalle funzioni di “vigilanza” a quelle di “risoluzione”. Nessuno degli attuali contendenti, Banca d’Italia, Governo o Parlamento, solleva un sopracciglio. Nessuno scorre le pagine della direttiva per verificare che il “segreto” fosse imposto dall’Europa “matrigna”. C’era una deroga, infatti. Ogni Stato membro avrebbe potuto “autorizzare lo scambio di informazioni” anche con “organismi di indagine” come la Corte dei conti.

Nell’ottobre 2017 ci ritroviamo con la Commissione d’inchiesta Casini, che come ha giustamente scritto il professor Perotti su la Repubblica del 20 ottobre “non potrà fare luce sulle vicende nostrane perché, molto semplicemente, non ha le competenze per farlo”. Qualora dovesse acquisirle, però, potrebbe scontrarsi con un segreto “profondo” introdotto per decreto.

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