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Economia

Se mari e pesci toccano il fondo – Ae 31

Numero 31, settembre 2002Stop overfishing, basta con il sovrasfruttamento, è la campagna lanciata dagli ambientalisti mentre l'Unione Europea prepara la revisione della Politica comune della pesca. Per il momento l'unica ricetta è però il massiccio taglio della flotta. Così, oltre…

Tratto da Altreconomia 31 — Settembre 2002

Numero 31, settembre 2002

Stop overfishing, basta con il sovrasfruttamento, è la campagna lanciata dagli ambientalisti mentre l'Unione Europea prepara la revisione della Politica comune della pesca. Per il momento l'unica ricetta è però il massiccio taglio della flotta. Così, oltre ai pesci, sono in pericolo anche 28 mila posti di lavoro.
I Paesi del Sud del mondo vendono invece i loro diritti. A scapito dell'industria locale, come in Senegal.

La pesca non ha ancora toccato il fondo, ma naviga in cattive acque. Perché si pesca troppo e con sistemi a volte aggressivi, che danneggiano gli stock ittici e mettono in pericolo gli ecosistemi. Bisogna fare qualcosa e questo è il momento giusto: la Commissione Europea ha presentato la proposta di revisione della Politica comune della pesca (Pcp), cioè il documento su cui verranno modellate le legislazioni dei Paesi dell'Unione Europea per lo sfruttamento dei mari nei prossimi dieci anni.

È l'occasione per chiedere una pesca sostenibile, partendo magari dal codice di condotta elaborato nel 1995 dalla Fao (vedi box a pagina 14). L'organizzazione delle Nazioni Unite ha espresso più volte le sue preoccupazioni in materia. L'ultima volta l'anno scorso con le parole del suo direttore generale Jacques Diouf, alla conferenza di Reykjavik sulla pesca responsabile: “I grandi oceani non sono inesauribili. Oggi ci sono troppe imbarcazioni a caccia di troppo poco pesce”.

Il parere è condiviso dagli ambientalisti (il Wwf ha lanciato mesi fa la campagna Stop overfishing, fermate il sovrasfruttamento ittico) ma anche dalla stessa Commissione europea. Le proposte di modifica della Pcp ruotano intorno alle parole “sovracapacità della flotta”. Tradotto: “troppi pescherecci per un numero insufficiente di pesci”. La soluzione che la Commissione ha in testa, lo vedremo tra poco, non avrà vita facile.

Anche perché la pesca è un settore vasto e complesso, in cui è difficile immergersi. In cifre: ogni anno nel mondo vengono prodotti, tra catture e acquacoltura, 136,8 milioni di tonnellate di pesci, molluschi, crostacei. L'Unione Europea è al terzo posto con 7,7 milioni di tonnellate, preceduta solo dal Perù con 8,4 milioni di tonnellate e dalla Cina, vero e proprio gigante, con quasi 47,5 milioni di tonnellate.

Un settore strategico, quindi. Anche a livello economico: con una flotta di circa 100 mila navi, l'Europa pesca per un valore annuo di 7,3 miliardi di euro.

Ma gli stock ittici soffrono e alcune specie rischiano l'estinzione. La soluzione della Commissione europea è un taglio netto alla “sovracapacità della flotta”. Che significa “fine agli aiuti pubblici concessi per l'acquisto di nuovi pescherecci” e aumento di quelli destinati alla demolizione. Questo per arrivare a una diminuzione dello “sforzo di pesca” tra il 30 e il 60% (a seconda della situazione degli stock e delle regioni), che nel giro di qualche anno dovrebbe portare al ritiro di 8.500 pescherecci, l'8,5% del totale comunitario.

La riduzione della flotta non è una novità, negli ultimi dieci anni i tagli sono stati del 7%, per un settore già in difficoltà che nello stesso periodo ha perso 66 mila posti di lavoro. I nuovi tagli potrebbero lasciare a terra altre 28 mila persone, anche se la Commissione ha già promesso di investire denari per una lo “riconversione” . Ma le associazioni di categoria hanno levato gli scudi, allarmate. Lega Pesca, per capire l'atmosfera pesante delle ultime settimane, ha diffuso un comunicato intitolato “L'Ue finanzia l'estinzione della pesca”.

Ma che la popolazione ittica di mari e oceani soffra è un dato. Che il Wwf, per quanto riguarda l'Europa, addebita proprio ai sussidi: 1,4 miliardi di euro che “permettono il mantenimento di una flotta di pescherecci europei 40 volte maggiore rispetto al pesce presente nelle acque degli Stati dell'Unione Europea”. In Italia “un terzo dei sussidi al settore ittico hanno un impatto negativo sull'ambiente perché sostengono metodi e strumenti di pesca distruttivi”. Cioè, per capirsi, quelli che portano a catturare non solo pesce, ma anche altre specie animali. Scarti del pescato -definiti bycatch- che si stima arrivino a 27 tonnellate: tra l'altro 60 mila tartarughe catturate ogni anno nel Mediterraneo, 10 mila focene (cetacei simili ai delfini), a Nord, intrappolate nelle reti, il 40% della vegetazione marina danneggiata dalla pesca a strascico. E poi c'è la pesca di pesci sottomisura, che riduce le capacità riproduttive degli stock: “Per ogni mezzo chilo di sogliola commerciabile -spiegano gli ambientalisti- i pescherecci a strascico del Mare del Nord pescano anche 7 chili di pesce al di sotto della taglia minima”.

È tempo che anche i consumatori si chiedano come è stato pescato il fritto misto che hanno nel piatto. Le specie a rischio non mancano. Solo in Italia, acciuga, nasello, triglia, squali e razze, pesce spada, sardine. Ma neanche i merluzzi se la passano bene: “L'anno scorso si è pescato soltanto il 70% della quota di merluzzo prelevabile nel Mare del Nord perché non vi era pesce a sufficienza”.

Resta però il problema dei 28 mila posti di lavoro. Tra i più allarmati ci sono i Paesi mediterranei. Tra Francia, Grecia, Italia e Spagna, vengono pescate più di un milione di tonnellate annue, da 105 mila pescatori con una flotta di 47 mila pescherecci.

“Ma la proposta di riforma della Pcp -spiega Nino Lucantoni di Lega Pesca- è stata modellata sul tipo di pesca del Nord Europa”. Che significa pesca industriale condotta da grandi aziende con navi che possono superare le 1.000 tonnellate e praticano la pesca a maggior impatto ambientale, quella pelagica, a grandi profondità e a grandi distanze dalla costa.

Diversa la situazione mediterranea: “I grandi pescherecci esistono anche da noi, ma si contano sulle dita di due mani”. Qui la pesca prevalente è di tipo artigianale o semi-artigianale. Un buon esempio è proprio l'Italia. Le imbarcazioni sono 16.522, i pescatori sono 53 mila ma si arriva a 70 mila considerando l'intero ciclo della pesca (nella lavorazione del prodotto, in particolare, lavorano 6.400 persone e la maggior parte sono donne). La pesca italiana è al sesto posto in Europa, ma al secondo posto tra chi riceve i contributi dell'Unione Europea. La caratteristica fondamentale: l'80% della flotta italiana è costituita da piccole imbarcazioni (tra le 5 e le 10 tonnellate) associate in cooperative, che praticano la cosiddetta “piccola pesca”, entro 6 miglia dalla costa. Il pescato viene venduto in grande quantità nei mercati locali o a ristoranti e comunque questi tutto il pesce è per il consumo interno.

È chiaro che una riduzione dei sussidi e del tonnellaggio colpirebbe duramente. Spiega, con un esempio, Marco Camponeschi di Agci Pesca: “Se decido di tagliare 200 tonnellate a una grande azienda del Nord Europa, questo significa magari eliminare un'unica nave. In Italia, invece, vorrebbe dire molte piccole imbarcazioni”. E molti più lavoratori a spasso. Da riconvertire: la Commissione Europea ha proposto di usare a questo scopo il denaro che nel piano finanziario 2003-2006 doveva servire per l'orientamento alla pesca e per l'ammodernamento della flotta. Oltre 460 milioni di euro per insegnare ai pescatori a fare un altro mestiere. Quale non si sa. “Difficile un'operazione di questo tipo -sottolinea Camponeschi-. Spesso si tratta di persone che fanno i pescatori da quando erano ragazzini”.

Per ora la Commissione ha ipotizzato di spendere 32 milioni di euro per la demolizione di pescherecci nel 2003. Ma, fa notare Sebastiano Venneri di Legambiente, “è sbagliato puntare sull'equazione riduzione del tonnellaggio uguale diminuzione dello sforzo di pesca. Con le tecnologie attuali i pescherecci pesano meno ma pescano molto di più”.!!pagebreak!!

Stop al massacro, la campagna
Per non affondare in poltrona, meglio darsi da fare. Iniziando a informarsi con la campagna Stop overfishing del Wwf. Fino a luglio era possibile inviare cartoline elettroniche ai ministeri dell'Unione Europea coinvolti nella riforma della Pcp per chiedere una nuova politica sostenibile. L'azione di pressione per il momento è sospesa, in attesa di vedere che direzione prenderà la bozza preliminare. Dal sito italiano (http://www.wwf.it/pesca/agisci.asp) è ancora possibile scrivere al ministero delle Politiche agricole e ambientali. Chi aderisce verrà informato via mail delle azioni future. Il sito internazionale della campagna continua a essere aggiornato con notizie e i dossier. Uno degli ultimi è Scraping the Bottom, del Wwf australiano, che dimostra come un certo tipo di pesca, usato per esempio per i gamberetti, sta causando l'estinzione di alcune specie di coralli.

Bollini di “garanzia” anche per il pesce
Anche i pesci hanno il bollino di garanzia. Come quello del Maritime stewardship council (Msc), nato alla fine del 1996 da Wwf e Unilever (tra i maggiori commercializzatori di pesce al mondo, con marchi come Findus) per certificare i prodotti ittici sostenibili. Dal 1999 Msc è un'organizzazione non profit autonoma con sede a Londra. Le aziende che richiedono il marchio Msc vengono certificate da società indipendenti. Tra le critiche rivolte all'Msc: poco spazio agli aspetti sociali della pesca, rispetto a quelli ambientali. Info: www.msc.org

Altra tipo di iniziativa è l'accordo triennale tra Legambiente e Arena Mare Pronto, in base a cui l'azienda si impegna a diffondere il “Decalogo della pesca responsabile” basato sul Codice Fao. In cambio, i surgelati Mare Pronto riportano il simbolo di Goletta Verde/Legambiente e le scritte “Pesca responsabile” e “Pescati nei mari puliti”. Neanche gli ambientalisti restano a mani vuote: Arena versa denari a Goletta verde sotto forma di sponsorizzazione. Il grosso limite dell'operazione è che ha un sapore davvero commerciale e non è una vera certificazione.

Wwf, l'accordo con i pescatori
Ambientalisti associazioni di pescatori insieme per una pesca sostenibile. È il senso del recente accordo tra Wwf Italia e Agci Pesca, una delle quattro associazioni di cooperative di pesca italiane. Il documento, che impegna i firmatari per i prossimi tre anni, parte dalla gestione integrata delle aree marine protette: per gestirle è necessario formare nuove “professionalità”. Persone che si occupino di pescaturismo, ittiturismo, sorveglianza, servizi di accoglienza a terra.

Fondamentale, poi, la regolamentazione della pesca sportiva: la mancanza di una normativa per delimitare il settore ha fatto proliferare i “pescatori della domenica”. Un esercito di 2 milioni di persone che per l'hobby preferito utilizzano tra l'altro anche le reti (nonostante sia proibito per legge ai non professionisti). “Ma quando la pesca sportiva utilizza gli attrezzi della piccola pesca, come reti o nasse -spiega Paolo Guglielmi, responsabile del Mediterranean Programme del Wwf- ha un impatto pesante sugli ecosistemi”.

Ma i problemi non arrivano solo dalla pesca sportiva. Per questo Agci e Wwf hanno deciso di lavorare anche sull'applicazione del Codice di condotta Fao: “Per farlo entrare in ogni barca, in ogni nave, nella sensibilità e nella pratica quotidiana di tutti i pescatori”. In chiusura le due associazioni si impegnano a lottare contro pesca illegale e inquinamento marino.

Tonni d'oro, il business ingrassa in gabbie galleggianti
Altro che ostriche. I veri affari, le specie prelibate da rivendere anche a 500 euro al chilo, nuotano in gabbie d'acqua di 50 metri per 70. Sono i tonni “bluefin”, o tonni rossi, allevati all'ingrasso per il ricco e sofisticato mercato giapponese. Che compra la carne di tonno a peso d'oro per mangiarla cruda, preparando sushi o sashimi. Il tonno rosso d'allevamento viene preferito per il suo elevato contenuto di grasso.

Ma attenzione, non si tratta di acquacoltura, i tonni rossi vengono catturati e poi ingabbiati. Una pratica rischiosa, perché l'allargamento del mercato di questo pesce stimola l'aumento delle catture. E secondo il Wwf, che all'argomento ha dedicato un intero dossier, nei prossimi anni gli stock di tonni rossi potrebbero collassare, a meno di regole che portino a una gestione sostenibile.

A questo vanno aggiunte le conseguenze per l'ecosistema. I tonni rossi sono bestioni che possono arrivare a più di tre metri di lunghezza per un peso di 6,5 quintali. Ma per raggiungere queste dimensioni, un tonno deve mangiare molto: per ottenere un chilo di “bluefin” ne servono 5 dei piccoli pesci di cui si nutre, come acciughe e sardine per esempio.

Nel giro di tre anni le importazioni giapponesi di “bluefin” del Mediterraneo sono passate da 200 a 4.300 tonnellate (ma il totale delle importazioni di tonni di differenti specie arrivava a oltre 7.400 tonnellate nel 1999). Nel 2000, nelle reti dei pescatori del Mediterraneo sono finite oltre 19.400 tonnellate di tonni rossi. A queste vanno aggiunte le catture non registrate: altre 3.242 tonnellate secondo le stime dell'Iccat, la Commissione internazionale per la conservazione del tonno atlantico. Quasi tutti i tonni finiscono poi nelle gabbie galleggianti per l'ingrasso, 12 impianti che producono 11.000 tonnellate di tonno: “Più della metà della quota 'allevata' in tutto il mondo”, fa notare il Wwf.

Il Paese più attivo è la Spagna: i bluefin vengono fatti ingrassare nella regione della Murcia e nel 2001 le 7.000 tonnellate esportate hanno fruttato 150 milioni di euro.

L'altro Paese forte negli allevamenti, al momento, è la Croazia con 3.000 tonnellate l'anno scorso, mentre Francia e Tunisia dominano la scena comunitaria come “fornitori”: quasi tutti i tonni che catturano finiscono negli “ingrassatoi” spagnoli, il 70% del pesce viene pescato dai francesi. Anche Malta, infine, s'è affacciata al mercato, con 1.200 tonnellate allevate.

Altri Paesi si stanno interessando alle gabbie galleggianti -tra questi la Tunisia- mentre il Mediterraneo continua a essere affollato dagli altri pescatori di tonni: Grecia, Italia, Libia, Marocco, Turchia ma anche lo stesso Giappone, con una flotta di 35 navi.!!pagebreak!!

Risorse in rete per saperne di più
Il materiale sulla pesca è vasto, ma reperibile su Internet. Su http://europa.eu.int/comm/fisheries/policy_it.htm trovate la Pcp in vigore, la proposta di riforma, le domande più frequenti. Le Nazioni Unite dedicano alla pesca un vero e proprio atlante (www.oceansatlas.org), con dati su “usi”, problemi e geografia degli oceani. La Fao (www.fao.org/fi/default.asp), pubblica codice di condotta e dati su produzione e commercio, problemi ambientali e socio-economici. Consultate le “Statistics” e in particolare http://apps.fao.org/page/collections?subset=fisheries

Infine il Wwf: il sito internazionale (www.panda.org/stopoverfishing), la versione italiana (www.wwf.it/pesca) e il Mediterranean programme (www.panda.org/mediterranean).

Pinne a rischio: Mar Ligure e Tirreno i più danneggiati
Un salvagente per i pesci italiani: anche nei nostri mari nuotano specie a rischio di estinzione commerciale. Ecco i 7 gruppi di ittici sovrasfruttati.

Acciuga. L'Adriatico è la zona che crea preoccupazione. Qui, nel 1986, gli stock sono diminuiti sensibilmente. Oggi si pesca il 25% della biomassa e gli ambientalisti avvertono che superare questa soglia potrebbe firmare la condanna a morte per la specie. Tra le regole da rispettare, si raccomanda di non pescare esemplari sottomisura o che non abbiano ancora raggiunta la maturità riproduttiva.

Nasello. Tirreno settentrionale e Mar ligure hanno subito una riduzione del 16% dello stock originario. Per riparare il danno bisogna ridurre la pesca del 15% e sospendere le operazioni periodicamente nelle zone di riproduzione. Necessario vietare la pesca nelle zone in cui si concentrano maggiormente i giovani esemplari.

Triglia. Lo stock rischia il collasso nel Mar ligure meridionale e nel Tirreno settentrionale. Oltre a ridurre di molto lo sforzo di pesca, bisognerebbe chiudere del tutto la zona entro le 3 miglia dalla costa e sospendere la pesca nei periodi di maggiore concentrazione di esemplari giovani. E queste disposizioni dovrebbero essere controllate intensamente dalle autorità preposte.

Squali e razze. Ancora Tirreno settentrionale: diminuite le catture negli ultimi 50 anni e alcune specie sono assenti. Tra quelle più in pericolo ci sono lo Squalus Blainvillei (la popolazione è stata danneggiata soprattutto dalla pesca a strascico) e la verdesca (di cui aumentano le catture “accessorie”, pescata insieme con altri tipi di pesci. Per esempio, tra il 1978 e il 1981, fa notare il Wwf, veniva pescato un esemplare di verdesca ogni 1,6 di pesce spada).

Pesce spada. Pescati molti esemplari immaturi o sottotaglia, duro colpo per la riproduttività della specie. Nel Tirreno centrale e meridionale il peso medio è tra i 12 e i 17,5 chili a esemplare, ma in alcuni casi vengono presi anche pesci spada di appena 3 chili. Nel Golfo di Taranto e in Sicilia, in certi periodi, il 53% di quello che veniva pescato dalla flotta alla ricerca di alalunga (un tipo di tonno) erano pesci spada con meno di un anno di età.

Sardina. Golfo di Manfredonia: la pesca del rossetto (un pesce molto piccolo anche nello stadio adulto) determina la cattura di sardine immature, fino al 39% del totale pescato.

Il Nord ha fame? Andiamo a rastrellare i mari del Sud
Se i pesci europei non bastano, se le scorte stanno finendo, niente panico. Per rifornirsi basta andare a Sud, buttare sul piatto montagne di denari e in acqua le reti. Ancora una volta i Paesi poveri saziano il ventre ingordo dei Paesi ricchi, ma senza ricavarne vantaggi sostanziali. Sono 60 i Paesi Acp, cioè le ex-colonie europee in Africa Caraibi e Pacifico, che dal 1995 hanno rifornito i Paesi Ue esportando i propri prodotti ittici. Ma esiste un'altra pratica, utilizzata dagli anni '70, che lega l'Europa a quelli che vengono definiti “Paesi terzi”. Si tratta di accordi di pesca tra l'Ue e Paesi del Nord Europa e del Sud del mondo. Su 25 attualmente in vigore, 15 sono con Stati africani.

Ma gli accordi non sono tutti uguali. Con i Paesi del Nord si utilizzano quelli di “reciprocità”, in base ai quali i contraenti aprono i rispettivi mari alle flotte dei partner. Con il Sud la musica cambia: l'Ue pesca in questi mari in cambio di “compensazioni finanziarie” (paga, cioè, per una licenza) ma non permette ai Paesi poveri di gettare le reti nelle proprie acque. Il senso unico, secondo l'Ue, è una strada obbligata, perché questi Stati “dispongono di risorse ittiche che non sono ancora in grado di sfruttare direttamente”.

Diverso il parere del Wwf: “La realtà -denuncia- è che i Paesi in via di sviluppo, bisognosi di denaro in contanti, vendono i diritti di accesso per pescare nelle loro acque costiere ai Paesi più ricchi. Questo danneggia spesso la popolazione locale, per la quale il pesce è la principale risorsa sia di proteine sia di guadagno economico”. Recente ed emblematico il caso del Senegal: il pesce è la seconda risorsa del Paese (con 33 milioni di dollari di esportazioni) e ha accordi di pesca con diversi Paesi esteri, tra cui l'Unione Europea dal 1979. La “crisi” con il Paese africano è all'inizio del 2002, quando il Senegal decide di bandire la flotta Ue dalle proprie acque. Il sovrasfruttamento ittico sta mettendo in crisi l'industria locale. La soluzione, per il governo senegalese, è un nuovo accordo del valore di 20 milioni di euro all'anno. Dopo mesi di trattative, si firma il documento: sul piatto 64 milioni di euro (per quattro anni), cioè 16 in più dell'accordo precedente. Questo aiuterà le casse senegalesi e le flotte europee, quelle di Spagna, Portogallo e Grecia in particolare. A farne le spese potrebbero essere i pescatori artigianali e, soprattutto, gli stock ittici.

I ricercatori del “Sea around us project” dell'università canadese della British Columbia, insieme con il Wwf, mettono in guardia dallo sfruttamento esagerato dei mari dell'Africa Nordoccidentale. E dimostrano, con il grafico qui a lato, come al massiccio aumento dell'intensità di pesca -tra il 1950 e il 2000- corrisponda un crollo della biomassa.

“Un collasso degli stock ittici in Africa Occidentale -avverte Claude Martin, direttore generale del Wwf- potrebbe avere conseguenze ben più serie che in Europa e Nord America”.

Ambiente e diritti dei lavoratori. Le regole fao per salvare la pesca
Il “Codice di condotta per una pesca responsabile” è stato adottato dalla Fao nel 1995. Sollecita l'approvazione, da parte degli Stati membri, di legislazioni nazionali in linea con i suoi principi. Il Codice ha richiesto due anni di confronti tra membri Fao, organizzazioni intergovernative, rappresentanti dell'industria della pesca e organizzazioni non governative.

Ecco, di seguito, i punti principali:

• Gli Stati e gli utilizzatori delle risorse acquatiche devono preservare l'ecosistema acquatico.

• Bisogna promuovere il mantenimento della diversità e della disponibilità delle risorse ittiche in quantità sufficienti per le generazioni presenti e future.

• Gli Stati devono prevenire il sovrasfruttamento dei mari e assicurare che lo sforzo di pesca sia proporzionale alla capacità produttiva delle risorse ittiche.

• Vanno sviluppate attrezzature e pratiche di pesca sicure e selettive, per preservare la biodiversità e la struttura della popolazione ittica e dell'ecosistema acquatico.

• Vanno protetti tutti gli habitat acquatici a rischio.

• Gli Stati devono assicurare che le navi battenti la propria bandiera applichino il Codice Fao.

• Gli Stati devono promuovere la pesca responsabile e assicurare la conservazione delle risorse acquatiche lungo tutta la catena di distribuzione.

• Gli Stati devono assicurare processi decisionali trasparenti, facilitando l'effettiva partecipazione dell'industria, dei lavoratori, delle organizzazioni ambientaliste.

• Il commercio internazionale di prodotti ittici deve seguire i principi, i diritti e gli obblighi stabiliti con l'Accordo dell'Organizzazione mondiale del commercio.

• Gli Stati devono promuovere la pesca responsabile attraverso la formazione professionale, coinvolgendo pescatori e allevatori ittici.

• Gli Stati devono assicurare che gli impianti e gli equipaggiamenti per la pesca permettano condizioni di lavoro e di vita sicure, salubri ed eque.

• Gli Stati devono proteggere i diritti dei pescatori e dei lavoratori della pesca, in particolare di quelli impegnati nella pesca di sussistenza e artigianale.

• Gli Stati devono considerare l'acquacoltura come un mezzo per una diversificazione nel reddito e nell'alimentazione, utilizzando in modo responsabile anche questa risorsa.

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