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Se la Polizia ci tiene in sacco

Di fronte a palesi violazioni dei diritti umani da parti di appartenenti alla forze dell’ordine le istituzioni non sanno come intervenire, preoccupate per le possibili reazioni “al di sotto della legge”. Agendo così, però, la crisi morale, professionale e ideologica è destinata ad aggravarsi, come testimonia la difficoltà ad affrontare le questioni poste dalla sentenza della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, che ha condannato l’Italia perché non punisce la tortura (scarica il libro sTortura)

Tratto da Altreconomia 173 — Luglio/Agosto 2015

Luigi Manconi, sociologo e senatore, forse il politico italiano più attento alla questione dei diritti, ha scritto di recente un articolo titolato “Perché in Italia tutti hanno paura della polizia” (http://intern.az/1naw). Il passaggio centrale merita d’essere riportato:  “La società italiana”, scrive Manconi, “nel suo complesso -classe politica compresa- ha paura della polizia. […] resiste nel Paese, e nei suoi gruppi dirigenti, una forma diffusa di preoccupazione non per ciò che le polizie, in nome e in forza della legge, possono compiere, ma per ciò che possono compiere contro la legge. È come se la classe politica, in particolare, non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della loro dipendenza in via esclusiva dalla legge, ne temesse le reazioni incontrollate. Da qui, una sorta di complesso di inferiorità e di sudditanza psicologica […]. Si tratta di un meccanismo micidiale che alimenta lo spirito di corpo e impedisce la trasparenza, che rafforza le tendenze all’omertà e ostacola qualunque processo di seria autoriforma”.

A causa di questa sudditanza psicologica, che si estende al giornalismo, risulta pressoché impossibile imbastire una seria discussione pubblica sul funzionamento delle forze dell’ordine, la loro credibilità democratica e anche su tutte le questioni normative collegate, dalla legge sulla tortura, ai codici identificativi, alla formazione, al reclutamento. Semplicemente non se ne parla, oppure, se una discussione comincia, si arena rapidamente su posizioni di timoroso conformismo, salvo scatenare azioni improvvide nei confronti di chi osi criticare certi comportamenti  (come dimostra la violenta reazione del capo della polizia Alessandro Pansa alle osservazioni di Enrico Zucca, pm nel processo Diaz relativo al G8 di Genova del 2001). Al momento non si intravedono vie d’uscita, vista la rinuncia dei media e delle forze politiche ad affrontare la questione posta da Manconi, passata del tutto inosservata. E tuttavia il discorso non può essere abbandonato, perché la crisi morale, professionale, ideologica delle nostre forze dell’ordine è destinata ad aggravarsi, come testimonia la difficoltà ad affrontare le questioni poste dalla sentenza della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, che ha condannato l’Italia perché non punisce la tortura.
Fra i pochi contributi utili alla discussione c’è il piccolo-libro intervista “Al di sotto della legge. Conversazioni su polizia e democrazia” (edizioni GruppoAbele), di Luigi Notari con Mauro Ravarino. Notari, oggi pensionato, è stato fra i protagonisti della storia sindacale in polizia, all’interno del Siulp. La sua analisi è argomentata e sferzante. Un snodo chiave, nella sua lettura, è la rapida eclissi della riforma realizzata nel 1981, con la legge che smilitarizzò la polizia e indicò una strada davvero nuova alle forze dell’ordine. “Il processo democratico -dice Notari- si bloccò presto”, a causa “innanzitutto” della “paura di contaminazione da parte degli altri corpi. […] L’alleanza fra apparati di polizia e gli altri corpi armati frenò bruscamente lo spirito del processo riformista e democratico. E, poi, ci fu il caso Dozier”. Cioè un caso -a cavallo fra 1981 e ‘82- di tortura decisa dall’alto, al fine di estorcere ad alcuni militanti delle Brigate rosse informazioni utili a scoprire il luogo di detenzione del generale della Nato, sequestrato dalle Br. “Fu il primo caso di malapolizia dopo la riforma -dice Notari- con il ricorso a strumenti illegittimi per estorcere la verità […]. Il caso Dozier frenò e minò il cambiamento, perché -come ormai rituale in tali situazioni- la polizia si ripiegò in se stessa, si affidò ai tifosi, chiedendo consenso e provando a ricostruire l’infausta separatezza dalla società”.
Lo schema si è ripetuto vent’anni dopo con il G8 di Genova, e impedisce tuttora di affrontare la “questione polizia” con la dovuta serietà. La sentenza della Corte di Strasburgo, col suo forte richiamo all’Italia per le carenze strutturali del suo ordinamento, ha offerto un’occasione irripetibile per avviare un progetto di riforma complessivo, ma è un’opportunità che stiamo sprecando, causa la ritrosia del parlamento a svolgere i compiti che gli sono propri, il diritto di veto concesso ai vertici degli apparati su qualsivoglia riforma li riguardi, l’assenza di voci indipendenti fra lavoratori e sindacalisti di polizia (Notari è la classica mosca bianca).
Per sviluppare il discorso di Manconi: abbiamo paura della polizia e a pagarne il prezzo sarà la nostra democrazia (sempre meno) costituzionale. —
 

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