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Se il Paese va a carbone – Ae 86

Dentro Civitavecchia, centrale in conversione: quando sarà finita qui ci sarà il più grande polo energetico d’Europa. Brucerà 4 milioni di tonnellate l’anno, ma la gente non ci sta, per via dell’inquinamento. Storia e ragioni di un ritorno al passato:…

Tratto da Altreconomia 86 — Agosto 2007

Dentro Civitavecchia, centrale in conversione: quando sarà finita qui ci sarà il più grande polo energetico d’Europa. Brucerà 4 milioni di tonnellate l’anno, ma la gente non ci sta, per via dell’inquinamento. Storia e ragioni di un ritorno al passato: un po’ folle, anche perché il carbone “italiano” arriva da Indonesia, Sudafrica, Cina. Conviene solo perché “sporco”


Il combustibile del nostro futuro è anche quello del nostro passato, e arriva via mare. Dopo un viaggio di settimane, le navi vengono scaricate in pochi giorni e ripartono, dirette verso l’altra parte del mondo. Quella dove ci sono le miniere: Indonesia, Sudafrica, Cina.

La centrale elettrica “Torrevaldaliga Nord” di Civitavecchia è un enorme cantiere in fibrillazione. Quasi 3 mila persone sono al lavoro per “convertire” questo impianto e farlo funzionare a carbone. Ma convertire non è il verbo adatto. In realtà la centrale è stata smontata e ora viene rimontata. Fino a qualche anno fa produceva elettricità bruciando olio combustibile. Poi Enel, cui appartiene, ha deciso di passare al carbone. Per farlo ha investito oltre un miliardo e mezzo di euro. Quando sarà operativo, forse già all’inizio del 2008, l’impianto avrà una potenza di quasi 2 mila megawatt (MW), sufficienti a dare elettricità a quasi 2 milioni e mezzo di persone. È una delle centrali più grandi d’Italia.

La riconversione di Civitavecchia è però solo uno dei tasselli di un progetto più ampio dell’ex monopolista, che punta a ottenere dal carbone, a partire dal 2012, metà dell’energia prodotta dall’azienda. Oggi è a poco più del 25%. Valore dell’operazione, non meno di 4 miliardi di euro. Fra quattro anni, un quinto dell’energia elettrica italiana sarà prodotta col carbone. Allora, 8 delle 12 centrali a carbone in Italia apparterranno a Enel.

L’impianto di Civitavecchia è racchiuso tra il mare e la ferrovia. Quando sarà operativo, il carbone arriverà su navi che attraccheranno alla nuova banchina, che si spinge per 380 metri nel mare ed è costituita da enormi cassoni di cemento armato poggiati sul fondale. Ogni cassone è lungo 30 metri, largo 20 e alto  21: un palazzo di sette piani. Accanto verrà realizzato un altro pontile, parallelo alla costa e lungo 250 metri. Il fondale tra le due banchine dovrà essere dragato a meno 18 metri, per permettere l’attracco delle gigantesche navi carbonifere, capaci di contenere ciascuna fino a 150 mila tonnellate di materiale. Di navi cariche di carbone ne arriveranno ogni anno almeno 40. Provenienza: Indonesia, Sudafrica, Australia soprattutto, ma anche Russia, Colombia e Cina.

Il carbone verrà prelevato direttamente dalle stive e, via nastro, trasportato in due siti di stoccaggio coperti (i carbonili). Sono cupole di 148 metri di diametro e 50 metri di altezza, all’interno delle quali saranno stivati fino a 140 mila tonnellate di carbone ciascuna. Vengono indicati col la parola inglese “dome” e saranno i più grandi carbonili mai realizzati al mondo. Eppure garantiranno appena 20 giorni di autonomia per la centrale, che funzionerà in pratica a ciclo continuo, 24 ore su 24, e consumerà almeno 4 milioni di tonnellate di carbone l’anno.

L’Enel investe sul carbone perché, semplicemente, costa meno. Meno delle fonti rinnovabili, meno del gas. Quasi la metà. Eppure realizzare gli impianti costa il doppio (in particolare a causa delle opere di abbattimento dei fumi), e c’è bisogno di più personale. Inoltre l’efficienza delle centrali a carbone arriva in media al 40% (vuol dire che il 60% dell’energia se ne va in calore): solo Civitavecchia, la più avanzata tecnologicamente, supererà il 42% (i moderni impianti a gas superano il 55%).

Ancora: il carbone emette il triplo di CO2 rispetto alle altre fonti energetiche.

E come tutti i combustibili fossili, prima o poi finirà, o almeno non sarà più economicamente sostenibile estrarlo.

Eppure il carbone conviene, anche se arriva dall’altra parte del mondo su navi alimentate a gasolio. Conviene perché il prezzo non è ancorato a quello del petrolio, come avviene per il gas. Conviene perché i minatori indonesiani, sudafricani e cinesi non hanno grandi pretese salariali e di sicurezza sul lavoro, per usare un eufemismo. Conviene tanto che l’Enel tiene spente altre centrali a gas (ad esempio quella di Trino Vercellese), meno inquinanti ma anche meno remunerative. Conviene perché le emissioni di CO2 (e i cambiamenti climatici che ne conseguono) sono costi sociali che non ricadono sugli utili delle aziende come Enel. Ma non solo.

Basta salire un po’ di quota per cogliere, con un solo sguardo, il mare, il porto di Civitavecchia e tre centrali termoelettriche. In poche decine di chilometri è racchiuso il più grande polo energetico d’Europa. A sinistra si vedono i 250 metri di ciminiera di Torrevaldaliga Nord, la centrale che Enel sta convertendo a carbone. Proprio accanto, Torrevaldaliga Sud, un impianto da 1460 MW a gas e olio combustibile, che appartiene alla Tirreno Power. A destra, in fondo, la centrale di Montalto di Castro, sempre dell’Enel, che coi suoi 3.600 MW di potenza è la più grande termoelettrica d’Italia, e brucia gas e olio combustibile. Non è difficile immaginare che la zona sia tra le più “provate” d’Italia per inquinamento industriale. Come se non bastasse, il porto non è elettrificato, il che obbliga le navi che attraccano a tenere i motori accesi per tutto il tempo della loro permanenza. La conversione a carbone della centrale di Civitavecchia è stata per questo motivo accolta con una ferrea opposizione della popolazione locale, particolarmente colpita da tumori e leucemie. L’ultima iniziativa di chi sperava nella definitiva chiusura dell’impianto è di giugno: un presidio nella sede del consiglio comunale della vicina Tarquinia e un digiuno collettivo durato un mese.

A fine luglio il ministero della Salute ha ammesso che i problemi ambientali e di salute di Civitavecchia e dei comuni vicini “rivestono una serietà epidemiologica, risultato di decenni di attività inquinanti mai seriamente monitorate e limitate”, e per tanto ha chiesto al ministero dell’Ambiente e a quello delle Infrastrutture di rivedere gli esiti della Valutazione di impatto ambientale della centrale Torrevaldaliga Nord.

Brindisi, una lampadina su 20

Per capire come funzionerà la centrale di Civitavecchia una volta terminata, bisogna fare un salto più a Sud, e sulle coste dell’Adriatico. La centrale “Federico II” è a 12 chilometri da Brindisi, nella località Masseria Cerano. È la più potente centrale funzionante a carbone in Italia (2.640 MW), oltre che la più inquinante in termini di emissioni di CO2. Un primato che le è valso anche un posto tra i trenta impianti che più contribuiscono all’aumento di gas serra in Europa.

A differenza della centrale di Civitavecchia, la Federico II occupa però un’area ben più vasta: 270 ettari, tra il mare, gli oliveti e i vigneti. Il carbone arriva al porto, al molo di Costa Morena, e dopo essere stato scaricato dalle navi viene trasportato per 15 chilometri lungo il cosiddetto “asse attrezzato”, un nastro coperto di asfalto che lo porta fino alla centrale. Qui viene scaricato nel carbonile, che può contenere fino a 600 mila tonnellate di carbone. A differenza dei “dome” di Civitavecchia, qui il carbone è allo scoperto, e quando tira vento si alza una sottile polvere nera.

Ogni anno questa centrale brucia 6 milioni di tonnellate di combustibile. Anche se ha un rendimento molto basso (il 37%) è in funzione 24 ore su 24, 7.600 ore l’anno.

È uno degli impianti “di base” della produzione italiana: una lampadina su 20 in Italia si accende con elettricità prodotta qui.

Uno dei problemi legati all’utilizzo del carbone è la produzione di cenere.

Circa un decimo di quanto viene bruciato si tramuta in cenere che va adeguatamente smaltita. Nel caso di Brindisi si tratta di 600 mila tonnellate di materiale, che vengono rivendute ai cementifici.

La centrale di Brindisi porta con sé  irrisolti problemi ambientali. I sistemi di abbattimento dei fumi risalgono ai primi anni 90 e sono di gran lunga meno efficaci di quelli in costruzione a Civitavecchia. I limiti sulle emissioni sono ancora quelli del 1991. L’ipotesi di conversione a gas dell’impianto, immaginata del 1996 e da realizzare entro il 2006, è stata definitivamente scartata nel 2002. Tutto il territorio soffre l’inquinamento prodotto anche da altre due grosse centrali, la Edipower (anch’essa a carbone, oggi controllata dai francesi di Edison) e la Enipower di Eni, a gas. Anche i dati epidemiologici sull’incidenza di tumori di Brindisi sono preoccupanti, così come il rapporto dello scorso luglio di Medicina Democratica che evidenzia livelli di inquinamento dell’aria e dell’acqua inaccettabili.

Nel maggio 2005 un comitato tecnico nominato dal Comune e dalle tre aziende  ha valutato l’impatto delle centrali sul territorio. In seguito ha  richiesto,  tra le altre cose, la riduzione delle emissioni di ossidi di azoto e di utilizzare esclusivamente carbone a basso tenore di zolfo. Enel ha risposto definendo inaccettabili queste richieste, se non “a scapito della produzione” e col rischio di “pesantissime ripercussioni economiche”. A fine giugno 2007, il sindaco della città ha fatto “assoluto divieto” di coltivare nell’area attorno all’asse attrezzato di trasporto del carbone, e imposto la distruzione di quanto era stato coltivato.

Piccola ma… bastarda

La valle del torrente Puglia è nota per la produzione di olio e del vino sagrantino. Qui, nel paese di Gualdo Cattaneo, tra Perugia e Foligno, infilata nella valle, si trova la centrale “Pietro Vannucci”, detto “Il Perugino”. È una piccola centrale a carbone da 150 MW (il consumo di 50 mila famiglie) ed è dell’Enel. Non serve avere la taglia di Civitavecchia o di Brindisi per causare seri problemi ambientali. La sua presenza si fa letteralmente sentire in tutta la zona: il rumore dei nastri trasportatori è forte e costante e solo dopo un po’ ci si fa l’abitudine. L’impianto, spesso indicato anche come la centrale di Bastardo, che è un paese non lontano, è stato costruito negli anni 60 per bruciare lignite, e solo nel ‘90 convertito al carbone. Questo spiega perché è l’unico lontano dal mare. Il carbone infatti arriva via nave ogni 15 giorni fino ad Ancona, poi a Foligno in treno e infine su camion. Spesso arriva su gomma direttamente dal porto. Ogni giorno sono almeno 75 camion, che  scaricano il carbone nel carbonile, che non ha nessuna copertura. I fumi della ciminiera poi non riescono a uscire dalla valle, profonda 650 metri. Gli impianti di abbattimento dei fumi sono anche più vecchi di quelli di Brindisi, eppure non esistono dati epidemiologici ufficiali, né analisi sui prodotti agricoli. La centrale non ha mai avuto una Valutazione di impatto ambientale: nel ‘90 non si sapeva cosa fosse.



L’espansione

Sono 11 le centrali italiane che oggi producono elettricità bruciando carbone. Coprono tra il 12 e il 15% dei consumi nazionali. Sette di questi impianti sono di Enel. Saranno 8 con l’entrata in funzione della centrale di Civitavecchia, e nove se dovesse partire la riconversione di quella di Porto Tolle (in provincia di Rovigo, vedi pagina 13). Gli altri grandi impianti a carbone erano dell’Enel e in seguito al processo di liberalizzazione del settore ora appartengono alla Tirreno Power (società controllata dalla Sorgenia di Carlo De Benedetti con i francesi di Electrabel), alla Edipower (della Edison) e agli spagnoli di Endesa (società che Enel, insieme con Acciona, è intenzionata a comprare). Nella mappa in alto, la geografia dell’espansione del carbone.

Verde solo a parole

Nella colonna a sinistra, il parco produttivo di Enel nel 2006. Il 22 per cento dei kilowattora prodotti proviene da centrali a carbone. Per il 2012 è previsto il salto: spariscono centrali a olio combustibile, raddoppia la produzione di elettricità con gas, il carbone diventa il combustibile di riferimento. Le rinnovabili sono quelle che incrementano meno: dal 24 al 30 per cento.

Lavori in corso

A regime, la centrale a carbone di Civitavecchia darà lavoro a 350 persone. Oggi i lavori di riconversione sono affidati a circa 3 mila, con non meno di 300 contratti di appalto e subappalto. Enel (ma anche il ministro per lo Sviluppo economico, Pierluigi Bersani) sostiene che i lavori siano all’80%: il collaudo del primo dei tre gruppi di generazione è previsto addirittura per l’inizio del 2007.

Eppure (come si evince dalle foto di queste pagine) a luglio solo uno dei carbonili coperti era in fase di costruzione (a sinistra), solo una delle due banchine costruita (nella pagina accanto), il fondale non dragato, il collegamento sotterraneo tra i carbonili e le banchine appena abbozzato. E due gruppi ancora ben lungi dall’essere terminati.

Attenti alle mutande

Dopo Civitavecchia, Enel punta a convertire a carbone un’altra grande centrale: è quella di Porto Tolle, in provincia di Rovigo. La centrale utilizzava olio combustibile. Il 31 marzo 2006 il tribunale di Adria (Ro) ha condannato in primo grado Enel (che ha fatto ricorso) a un risarcimento di 3 milioni di euro per i danni provocati dalle “ricadute oleose” dei fumi prodotti dalla centrale, che rovinavano colture, biancheria stesa ad asciugare e carrozzerie delle macchine. Ora la procura indaga su danni alla cittadinanza. Il ministero dell’Ambiente non ha ancora espresso un parere definitivo circa la Valutazione di impatto ambientale della centrale: contro la conversione, il fatto che l’impianto si trova all’interno del parco naturale del Delta del Po, dove la legge vieta l’insediamento di centrali così inquinanti (addirittura il carbone verrebbe portato alla centrale con le chiatte attraverso l’oasi naturale).

http://lavocetta.googlepages.com/minaccealpolesineealdeltadelpo3

Basta risparmiare

Enel giustifica l’aumento di capacità produttiva e il conseguente investimento in carbone con le previsioni di crescita della domanda di energia elettrica. Secondo il Politecnico di Milano, tuttavia, solo razionalizzare l’uso degli stand-by degli elettrodomestici permetterebbe da qui al 2020 un risparmio di energia (a parità di comfort) equivalente a quella prodotta dalle centrali di Civitavecchia e Porto Tolle.

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