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Se il lavoro non basta

Chi trova una occupazione non è sicuro di uscire dalla povertà, condizione che dipende anche da altre variabili, da quelle famigliari al sistema di welfare

Tratto da Altreconomia 173 — Luglio/Agosto 2015

Non basta avere un lavoro per uscire dal rischio povertà. “Perché -spiega la sociologa Chiara Saraceno- un reddito solo in famiglia può non bastare, soprattutto in assenza di trasferimenti, in particolare per il costo dei figli. Le famiglie monoreddito sono più vulnerabili alla povertà, e sono fortemente concentrate nei ceti più modesti e nelle regioni più povere. D’altra parte, l’aumento dell’occupazione, anche quando c’è o ci sarà, oggi non comporta necessariamente un aumento degli occupati nelle famiglie che ne avrebbero più bisogno”. È una delle tesi alla base del suo ultimo libro, “Il lavoro non basta” edito da Feltrinelli, con cui la Saraceno scardina alcuni luoghi comuni sulla società e ricostruisce un quadro aggiornato sulla povertà in Italia e in Europa.

Professoressa, cosa significa che il lavoro non basta?
Le faccio un esempio: negli anni pre-crisi stava aumentando l’occupazione femminile. Ma chi sono le donne occupate? Quelle ad alta istruzione, che normalmente mettono su famiglia con uomini di pari istruzione. L’aumento dell’occupazione femminile, così, privilegia le famiglie a doppio reddito a livelli alti e non a livelli bassi. Abbiamo una polarizzazione fra le famiglie ‘ricche di lavoro’ a livelli medio alti e ‘povere di lavoro’ a livelli bassi. Per questo le politiche del lavoro da sole possono non necessariamente produrre diminuzione della povertà, che è molto più alto fra i non laureati. Soprattutto le non laureate corrono un elevato rischio di non entrare nel mercato del lavoro, a prescindere dai carichi famigliari, o di doverne uscire quando hanno questi carichi.

Nel libro sostiene che il ruolo della famiglia non sia sempre positivo e protettivo. Una retorica da superare?
Un fenomeno che vale non solo in Italia, ma che in Italia è accentuato dall’assenza di politiche di sostegno alle famiglie e dall’aspettativa che le famiglie debbano farsi carico dei bisogni dei loro componenti, a prescindere dall’età. C’è da sempre l’idea che il primo welfare sia quello famigliare, ben oltre il sostegno ai bambini piccoli. Senza questa solidarietà ci sarebbe molta più povertà tra i giovani e anche tra i vecchi fragili, che non saprebbero come soddisfare i propri bisogni di cura. Lo  si è visto anche con la crisi: uno dei motivi per cui nei primi 2 anni la crisi si è sentita meno è stata certo la presenza degli ammortizzatori sociali, ma anche la solidarietà espressa dalle famiglie che hanno redistribuito molto.

Ma non tutti ce la fanno.
Bisogna che i bambini dicano alla cicogna dove farli nascere, perché l’origine famigliare è fondamentale per le chance di vita, cruciale per il benessere ben oltre la prima infanzia, anche da giovani e forse anche da vecchi. Proprio questa solidarietà attesa senza sostegni può rovesciare la solidarietà famigliare in causa di povertà, sia per la famiglia stessa sia per i singoli membri. Una donna che non può stare nel mercato del lavoro perché sovraccaricata di cura rischia moltissimo nel momento in cui finisce il suo matrimonio. Una famiglia mono-reddito può diventare povera quando quell’unico reddito viene meno o viene fortemente ridotto dalla disoccupazione. Una coppia che decide di avere un figlio in più è fortemente a rischio nel nostro Paese, dove avere 3 figli è un elemento di rischio altissimo, e nel Mezzogiorno già averne 2. In questo senso la famiglia ha un ruolo bifronte: protettivo, ma anche di esposizione al rischio di povertà. Anche i trasferimenti di reddito in Italia sembrano poco efficaci nel contrastare la povertà.

Perché nessuno vuole mettere integralmente mano ad una riforma radicale del welfare italiano?
Prendiamo la misura degli 80 euro del governo Renzi. È una detrazione fiscale per i lavoratori dipendenti a basso reddito, l’ennesima misura “categoriale” di cui forse non si sentiva il bisogno in assenza di un reddito minimo per chi si trova in povertà. Ma è ancora più grave che tra i lavoratori dipendenti quelli a più basso reddito di tutti, cioè gli incapienti, non possano averla perché non è stata introdotta l’imposta negativa, cioè la restituzione tramite trasferimento diretto della detrazione di cui non si può fruire. Già da anni è stato calcolato  che il 45 % delle detrazioni cui i cittadini avrebbero teoricamente diritto non è fruibile per motivi di incapienza. Vale per i famigliari a carico, per le spese mediche e così via, ora anche per gli 80 euro mensili. Io sono contro il “categorialismo” perché ogni volta che s’inventa una categoria si crea un gruppo di interesse che poi rivendica la priorità del proprio interesse rispetto ad altre categorie che richiedono riconoscimento. Ogni nuova categoria mette il cappello su un pezzetto di risorse, e poi diventa difficile cambiare le cose, perché si devono sempre trovare risorse aggiuntive senza fare mai ordine.

Con l’introduzione del reddito minimo si supererebbero questi limiti?
Non è oggi il periodo più ideale, dal punto di vista finanziario, anche se urgente dal punto di vista sociale, per mettere mano a misure di questo genere, ma a dirla tutta in Italia non è mai stato il momento anche quando non ci si preoccupava molto del deficit. Il reddito minimo tuttavia non è l’unica soluzione, è la protezione di ultima istanza che opera quando il lavoro remunerato non c’è o non è sufficiente o non può essere svolto per condizioni di salute o di sovraccarico di lavoro famigliare, quando gli altri trasferimenti, in primis per il costo dei figli, non sono sufficienti a tenere le persone fuori dalla povertà. Per combattere la povertà è necessario un complesso di misure che abbiano una loro coerenza logica. L’Istituto per la Ricerca Sociale ha stimato che in presenza di un sistema di trasferimenti per i figli capace di mettere insieme e riordinare tutte le misure frammentarie che ci sono in questo campo (assegno al nucleo famigliare, assegno per il terzo figlio, ora anche il “bonus bebé” per tre anni, detrazioni per i figli a carico), una grossa quota di famiglie uscirebbero dalla povertà. Non diventerebbero ricche, ma riuscirebbero a tenere in equilibrio i loro bilanci. Se poi si sostenesse fattivamente l’occupazione femminile -in particolare nei ceti bassi- le cose migliorerebbero ancora di più. Avere la mamma che lavora fa diminuire di due terzi il rischio di povertà e lo riduce anche in caso di separazione o divorzio. Poi ci vuole anche il reddito minimo, che è stato inventato in molti Paesi e anche un po’ di “imposta negativa” che esiste anche negli Stati Uniti,  in Inghilterra e in Francia. Se uno lavora ma non guadagna a un certo livello, si deve integrare il reddito. Questa non è una priorità della politica. Quello che contesto ai governi è che non riescono ad arrivare a misure coerenti e meno categoriali. E il governo Renzi è particolarmente ostile per motivi culturali al reddito minimo.

Parliamo di pensioni, la fetta più importante e consistente della spesa pubblica nel welfare. Per creare nuovi diritti bisogna mettere in discussione i diritti acquisiti?
In parte sì. Occorre discutere che cosa s’intende per diritti acquisiti. Certamente le pensioni sono il punto più importante perché sono diritti acquisiti in un patto fatto oggi per domani, in cui non si può tornare indietro se le regole cambiano. Qual è il patto e a spese di chi è il patto? Un diritto acquisito che lede gravemente la possibilità di acquisire diritti a tutti gli altri non è un diritto di cittadinanza, diventa un diritto feudale. Nella sentenza della Corte Costituzionale (sull’adeguamento delle pensioni, ndr) c’è sottotraccia un tema che condivido molto: un patto sulla garanzia di un reddito adeguato, ma non necessariamente allo stesso tenore di vita di prima della pensione, specie per i redditi alti. Chi ha maturato diritti pensionistici secondo cui per tutta la vita riceverà “sproporzionatamente” rispetto ai contributi versati, non gode di diritti acquisiti, ma di privilegi acquisiti. Rischiamo di produrre una generazione di poveri e contestualmente una generazione di privilegiati. Poveri che moriranno presto e godranno poco delle loro modeste pensioni e abbienti che vivranno a lungo e godranno a lungo di una pensione al cui finanziamento avranno solo parzialmente contribuito. Il diritto acquisito dalla mia generazione di ultrasettantenni per alcuni è un privilegio: perché i contributi versati la coprono solo in parte, e tanto meno quanto più a lungo vivranno. Noi abbiamo pagato la pensione di quelli più vecchi perché eravamo di più e con lavori più stabili, soprattutto gli uomini. Adesso no. Quindi i giovani possono dire che quel patto non l’hanno fatto, ma sono costretti a pagarlo. Forse è ora di pensare a una riforma del sistema pensionistico, che garantisca a tutti una pensione di base, con un effetto redistributivo dall’alto verso il basso, lasciando al sistema contributivo di finanziare il secondo livello. —

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