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Opinioni

Se anche l’Fmi dà ragione ai “no-global”…

Lunedì 3 dicembre il Fondo monetario internazionale ha reso pubblico un nuovo rapporto sul tema spinoso del controllo dei movimenti di capitale. A sorpresa, si è detto pronto a raccomandare in alcune circostanze ai singoli Paesi di tornare a istituire un controllo sui movimenti di capitale in entrata e uscita.

Alle metà degli anni ’90, all’apice del dogma liberista, i vertici del Fondo – sostenuti dal G8 allora targato “centro-sinistra” sotto la guida di Bill Clinton – considerarono addirittura la possibilità di “costituzionalizzare” nello statuto dell’organizzazione l’obbligo per i paesi membri di liberalizzare completamente il proprio conto capitale, ossia rimuovere ogni possibile controllo sui flussi di capitale.
 
Poi nel ’97-’98 la crisi finanziaria del Sud-Est asiatico iniziò a scuotere il pensiero unico, specialmente quando la Malesia disobbedì al Fondo e controllò i capitali in uscita dal paese, riducendo i danni rispetto a quanto sofferto dagli stati limitrofi. Ciononostante l’Fmi continuò a propagare e imporre il proprio verbo in quasi tutto il pianeta. Ma le economie emergenti, una volta emancipatesi dal ricatto del debito, finalmente ripagato al Fondo, reintrodussero lo stesso alcuni controlli sui movimenti di capitale.
 
Con la crisi del 2007-2009, la dinamica politica è definitivamente cambiata. I Brics e altri paesi emergenti, guidati dal Brasile e dalla Corea del Sud, hanno intensificato le loro pratiche di controllo, anche per arginare il travaso immenso di capitali in fuga dal Nord globale in recessione e in cerca di profitti più alti nei nuovi mercati. Un flusso potenziato dalla decisione delle banche centrali del Nord di stampare denaro a costo quasi nullo per le banche private, da cui è derivato il rischio di bolle speculative e nuove crisi finanziarie indotte proprio nelle nuove locomotive dell’economia globale. Per questo controllare i movimenti dei capitali è diventata una pratica necessaria per chi se lo può permettere.
 
Lo smacco definitivo per il Fondo monetario è infine arrivato quando nel 2009 si è visto costretto a consigliare all’Islanda, sull’orlo della bancarotta, di reintrodurre i controlli per fronteggiare la fuga di capitali, spaventati dalla rinegoziazione del debito e dalla nazionalizzazione delle banche in crisi.
 
Caduta ogni inibizione, il dibattito ha fatto irruzione nelle stanze di Washington. Così la nuova “visione istituzionale” del Fondo sul tema, appena pubblicata, ha finalmente sdoganato l’idea che non sempre la liberalizzazione dei movimenti di capitale fa bene. Pur se il cuore economista del Fondo non abbandona il sogno di un mondo ideale globalizzato e senza limiti per la circolazione dei capitali, il realismo della crisi e il conflitto politico con i paesi emergenti ha spinto i banchieri di Washington a un vero compromesso.
 
Va però sottolineato che non è tutto “no-global” quel che luccica,
poiché oggi chi chiede libertà di controllo, come il Brasile, lo fa, oltre che per difendersi da bolle speculative, soprattutto per calmierare l’apprezzamento della propria moneta e difendere così l’altro dogma dell’export globale, su cui è basata la crescita. Un paradosso, poiché lo stesso Fmi riconosce come il controllo dei capitali possa confliggere con gli obblighi inseriti in molti accordi per la liberalizzazione del commercio di beni e servizi, inclusi quelli finanziari. Ossia, per avere un vero spazio di azione per controllare i capitali, sarebbe necessario rinegoziare anche alcuni di questi accordi commerciali, proprio quando non tanto i paesi del Sud, ma diversi paesi del Nord stanno pnesando di introdurre alcune misure protezioniste (va detto non sempre negative, se giustificate con politiche industriali di rilocalizzazione e sostenibilità a livello nazionale o regionale).
 
E’ il mondo che sta cambiando, e diventando nei fatti un po’ no-global, dando ragione a chi per due decenni ha denunciato il sogno impossibile e folle della globalizzazione liberista. Anche se vecchio Nord e nuovo Sud emergente si continuano a dichiarare liberisti, come un mantra per esorcizzare il collasso dell’integrazione globale. Contrariamente a quello che timidamente ha ammesso il Fondo, la giustificazione per tornare a controllare i capitali non la si trova solo in circostanze straordinarie, nel rischio di bolle speculative nel breve termine, nel diverso livello di sviluppo tra le varie economie, o nel carattere solamente transitorio delle misure da applicare con ampia trasparenza. Tornare a controllare i movimenti di capitale a livello internazionale può essere solo positivo, poiché così si imbrigliano e si sgonfiano i mercati privati di capitale, dove oggi la troppa ricchezza accumulata continua a muoversi, distruggendo tutto ciò che tocca. Perciò è giunto il momento che i critici della globalizzazione liberista rivendichino questo strumento come centrale per invertire la rotta e come pre-condizione per prefigurare politiche economiche per uscire dalla crisi alternative a quelle promosse oggi dai governi.

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