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Se anche il nido finisce al mercato

È un servizio sociale di interesse pubblico, che l’Italia non ha saputo garantire. L’arrembaggio delle multinazionali che cercano il profitto nel passeggino In Europa ha interessi rilevanti nella amministrazione penitenziaria, negli Stati Uniti collabora con la Difesa, in tutto il…

Tratto da Altreconomia 107 — Luglio/Agosto 2009

È un servizio sociale di interesse pubblico, che l’Italia non ha saputo garantire. L’arrembaggio delle multinazionali che cercano il profitto nel passeggino

In Europa ha interessi rilevanti nella amministrazione penitenziaria, negli Stati Uniti collabora con la Difesa, in tutto il mondo gestisce servizi di catering (anche biologico) e in Italia asili nido: è la multinazionale francese Sodexo (www.sodexo.com), 355.000 addetti in 80 Paesi, un giro d’affari di oltre 13 miliardi, capitalizzata in Borsa per quasi 6 miliardi di euro e titolare, tra gli altri, del diffusissimo marchio di ticket restaurant Passlunch.
Dal 2004, con la società Crescendo, la multinazionale ha iniziato ad occuparsi di asili nido in Italia in modo sistematico: i suoi servizi non si limitano più alla sola gestione del catering; Sodexo assume direttamente anche educatrici e ausiliarie, offre supervisione psicologica e coordinamento delle strutture, e oggi gestisce una decina di asili nido tra la Lombardia, il Friuli e il Veneto.
Non si tratta, però, di strutture private: Sodexo prende in gestione nidi comunali che le amministrazioni locali decidono di esternalizzare, spesso per ridurre i costi a loro carico. La struttura resta di proprietà pubblica e le tariffe sono concordate con l’ente locale, che deve approvare anche le linee progettuali generali del servizio, ma le attività, i ricavi ed il rischio di impresa sono della multinazionale. Il Comune al massimo interviene con contributi economici a pagare parte delle rette delle famiglie “che non ce la fanno”.
Dal punto di vista del progetto, va detto, Sodexo non fa mancare nulla:
le educatrici sono qualificate, la mensa è ben gestita e tra le offerte integrative non mancano la giornata aperta ai genitori e il corso di massaggio infantile. Per una multinazionale che opera nel mercato dei servizi, d’altra parte, il nido è un business, l’infanzia un mercato, la famiglia un target: una situazione molto diversa da quella dichiarata dalla legge istitutiva dei nidi (la 1044 del 1971, figlia dei movimenti femministi) che li riconosce come “un servizio sociale di interesse pubblico”.
Certo, dal 1971 sono cambiate tante cose, sistema di welfare in testa, e i Comuni devono fare i conti con domande di servizi crescenti e risorse sempre più scarse.
Il caso dei nidi da questo punto di vista è esemplare. L’offerta di posti nido è inferiore alle necessità: l’Unione Europea ha fissato in 33 posti ogni 100 bambini lo standard da raggiungere per il 2010. Solo cinque Paesi hanno raggiunto questo tetto (Danimarca, Olanda, Belgio, Spagna e Svezia), altre cinque (tra cui Portogallo e Slovenia) stanno per arrivare alla soglia. In Italia, invece, la copertura è del 6%, ma la media nasconde un Paese diviso in due. Il 60% dei nidi è nel Nord Italia, l’offerta nei capoluoghi di provincia è il doppio di quella media nazionale (14 posti ogni 100 bambini), e, mentre alcune città hanno già quasi raggiunto l’obiettivo europeo (Modena, Firenze, Como…), altre hanno situazioni di ritardo difficili da colmare (Catanzaro 0,8%, Napoli 3%).
Nello scarto tra l’offerta pubblica scarsa e la domanda in esplosione, soprattutto a causa del maggior accesso delle donne al lavoro, si colloca il mercato privato dei servizi.
Secondo una recente stima di Assonidi e Camera di commercio di Milano, i nidi privati alla fine del 2008 erano più di 2.500, in forte aumento sull’anno precedente. Se al Sud Italia non si passano in tutto le 600 strutture, nella sola città di Milano il loro numero è triplicato in 5 anni (da 50 a oltre 150) e l’offerta privata oggi raggiunge i 4mila posti (il servizio comunale ne offre 7mila).
In questo modo, certo, l’obiettivo europeo si fa più vicino, ma cambia in modo rilevante il costo a carico delle famiglie.
Una comparazione delle rette è ardua perché soggetta a molte variabili, ma pochi dati bastano a rendere l’idea di quanto il “servizio sociale di interesse pubblico” di cui ci stiamo occupando sia in balia dei mercati: a parità di redditi familiari e orario di frequenza i nidi comunali presentano rette mensili che variano dai 142 euro di Roma ai 572 di Lecco, mentre nei nidi privati le rette sono stimate generalmente tra i 500 e gli 800 euro.
In questo mercato si muovono soggetti molto diversi e le famiglie si trovano a dover scegliere tra nidi comunali o gestiti in franchising, tra cooperative sociali e multinazionali, tra mamme che provano ad aprire un nido-famiglia a casa propria e aziende che aprono strutture per i dipendenti. Proprio perché di mercato si tratta, un’attenzione particolare lo meritano i soggetti no profit, e in particolare le cooperative sociali che da più tempo operano nella gestione dei nidi. Oltre 250 sono quelle che aderiscono a Pan (Progetto asili nido), consorzio costituito dai principali attori della cooperazione sociale in collaborazione con la banca Intesa-Sanpaolo, e titolare di un marchio di qualità che certifica standard, formazione e politiche di miglioramento. Oltre a queste, però, alcune centinaia di altre società cooperative sono attive nel settore, in modo autonomo o in convenzione coi Comuni.
Moltissime sono inoltre le richieste di informazioni per dare il via a nuove realtà, complice anche una politica governativa che da anni sostiene l’avvio di nuove imprese. Un invito alla prudenza viene da Lucia Villani, che per conto di Confcoopertive Como incontra le donne che vogliono avviare piccoli asili nido. “La formula cooperativa funziona: coinvolge le famiglie, incentiva la dimensione di gruppo tra educatrici che si associano, intercetta l’opportunità di finanziamenti per lo start up e gode anche di un’aliquota Iva agevolata, che contribuisce ad abbattere le rette rispetto al privato for profit. Il vero rischio è che la domanda delle famiglie non riesca ad incontrare le rette del mercato privato”. In tempi di crisi, l’esercito delle baby sitter in nero rischia così di abbattersi come una scure su ogni possibile soluzione. Una scure a doppio taglio: per il mercato, sconfitto dall’economia sommersa, e per le famiglie, costrette a tornare a fare i conti col “fai da te”. Intanto, spinti un po’ dalla crisi del welfare e un po’ dalla crescita dei mercati sociali, fuori dal nido ci sono finiti i Comuni.

Un lusso per le casse comunali
I bambini: che tesori! La spesa media mensile sostenuta per i nidi è infatti di 633 euro per ciascun frequentante (Cittadinanzattiva), generalmente più alta al Nord (fino ai 1.460 euro della Valle d’Aosta) e più bassa al Sud (fino ai 217 euro della Calabria). I bambini a 0 a 3 anni sono il 4% della popolazione (Istat) e l’offerta media è di 6 posti ogni 100 potenziali iscritti. Questi i dati medi, ma la realtà è molto diversificata: l’offerta è molto concentrata nel Nord Italia e il tasso di copertura dei nidi nei capoluoghi di provincia è oltre il doppio della media nazionale (14% contro 6%). Ne emerge un quadro in cui l’offerta di posti in asili nido è largamente inferiore alle esigenze, ma i costi insostenibilmente alti. Con i parameri sopra ricordati, un ipotetico comune con 30mila abitanti dovrebbe investire in nidi oltre un milione di euro. Di questi, una parte (mediamente il 40%) sarebbe coperta dalle rette delle famiglie. A carico del Comune rimarrebbe comunque una spesa di oltre 600mila euro. Poiché la spesa sociale di un ente locale è di circa 92 euro per abitante (ministero della Solidarietà sociale), il nido del nostro esempio arriverebbe ad assorbire oltre il 20% delle risorse per il welfare municipale: un lusso che pochi Comuni possono permettersi?

A scuola al Villaggio Mafalda
Il “Nido di Sofia” accoglie 39 bambini, e 1260 volontari. Non tutti al nido, per fortuna. Il progetto è nato dalla cooperativa Paolo Babini di Forlì (www.paolobabini.it) che, con una storia lunga più di 20 anni nella gestione di comunità educative per minori in difficoltà, è arrivata a dare il via ad un progetto unico nel suo genere: il Villaggio Mafalda. Si tratta di un villaggio della solidarietà che, oltre ad essere abitato da nuclei familiari stabili motivati all’accoglienza, offre al suo interno servizi rivolti a diverse fasce della popolazione: 11 mini-appartamenti per nuclei monogenitoriali e giovani in situazione di disagio, un asilo nido (appunto il Nido di Sofia), una comunità educativa per minori e un centro polifunzionale. Il nido, aperto sia alle famiglie del Villaggio che a tutti gli abitanti della zona, è aperto dalle 7.30 alle 16.30 e costa alle famiglie 350 euro al mese. I prezzi decisamente bassi sono garantiti dalla presenza costante dei volontari della cooperativa, che affiancano le educatrici professionali svolgendo compiti di supporto (dalle pulizie alla distribuzione della merenda).

L’educazione è un percorso di crescita
Il modello Montessori a Varese
A Calcinate del Pesce (Varese) i bambini delle elementari “pensano con le gambe”, o almeno è quello che ritengono le maestre che, forti di un approccio montessoriano, li accompagnano nella verifica personale e diretta di ciò che imparano, dentro e fuori la scuola. Ma, se la scuola elementare non ha né voti né compiti, la scuola d’infanzia e il nido non sono da meno.  
Tutto è iniziato da un gruppo di amici che avevano in comune un’idea che oggi definiscono “non conformista” di relazione coi bambini. Dopo tanti anni di attività individuale, hanno deciso di costituire un’associazione e dare vita ad un piccolo spazio gioco (era il 1994) in cui verificare insieme e in concreto il proprio stile di lavoro. Sono stati proprio i genitori incontrati in questo piccolo servizio che hanno spinto perché l’esperienza avesse più continuità. Ne è nata innanzitutto la cooperativa “Percorsi per crescere” e, poco dopo, l’asilo nido, e via via gli altri ordini di scuole (www.montessorivarese.it). Oggi il nido accoglie 20 bambini, 42 la scuola d’infanzia e 70 la scuola elementare. Il progetto pedagogico è il punto forte di questa esperienza che si basa “sul rispetto dell’altro, la sospensione dei giudizi verbali, l’addestramento alla collaborazione anziché alla competizione, la liberazione dalla paura dell’errore e del giudizio, l’aiuto all’indipendenza e al senso di responsabilità”. I costi certo non sono trascurabili per una struttura interamente auto-finanziata dalle famiglia (nessun ordine di scuole per ora è parificato, e quindi non c’è alcun contributo pubblico). Il nido, ad esempio, da quest’anno costa 630 euro per la frequenza fino alle 16 (oltre al buono pasto), e questo finisce inevitabilmente per selezionare le famiglie destinatarie. I genitori però ci hanno pensato e siccome uno dei principi fondanti della scuola è l’uguaglianza hanno introdotto un abbattimento dei costi per chi fosse fortemente motivato ma impossibilitato a pagare la retta piena. La quota mancante, ovviamente, viene integrata dagli altri genitori che, costituiti in associazione, sono insieme alla cooperativa il sostegno economico e progettuale di tutta l’esperienza. In tempi di grande dibattito sulla scuola privata, un’esperienza su cui riflettere.

Idee "a domicilio"
La Carfagna della porta accanto. È il nido condominiale, infatti, la strategia che il ministro delle Pari opportunità intende sostenere (e finanziare, con 5 milioni di euro) già dal 2009 per aumentare un’offerta sottodimensionata.
In Trentino, la strada è aperta da 20 anni, altre Regioni hanno invece normato questa figura di recente. In Lombardia, una delibera del 2005 stabilisce che il nido-famiglia può ospitare fino a 5 bambini e dev’essere gestito da associazioni familiari o enti no profit “secondo il modello educativo e gestionale ritenuto più idoneo, nel rispetto dell’identità individuale, culturale o religiosa”. Non sussistono particolari regole: le famiglie che lo costituiscono e lo frequentano ne hanno la piena responsabilità. L’opportunità è interessante, ma grandi sono anche le ambiguità: chi garantirà la qualità pedagogica dei servizi? Qual’è l’affidabilità di un servizio per bambini presentato come un modo per occupare donne disoccupate? Essere una buona mamma in che misura consente di essere una brava educatrice?

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