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Cultura e scienza / Opinioni

Gli “schiavi” del patrimonio

La sala di Druso al Quirinale (Roma); la visita al palazzo presidenziale è stata ampliata dal presidente Mattarella nel giugno 2015

Il ministero dei Beni culturali copre 1.221 posti tra biblioteche e archivi grazie al “volontariato” di professionisti che non hanno altra alternativa a call center ed emigrazione. “Un volto che ci somiglia”, la rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 190 — Febbraio 2017

Un volto che ci somiglia: vorrei prendere alla lettera il titolo che la rubrica ha in prestito da uno straordinario libro di Carlo Levi sulla bellezza del nostro patrimonio culturale.
Il volto che somiglia a quello di noi storici dell’arte, archeologi, archivisti, bibliotecari etc. che lavoriamo per il patrimonio (nelle università o nei ranghi del ministero per i Beni culturali), e quello degli storici dell’arte, archeologi, archivisti, bibliotecari etc. che lavorano come volontari per quello stesso patrimonio. È un volto che si somiglia (perché studi, preparazione e lavoro sono gli stessi), ma non è lo stesso: perché noi veniamo pagati, loro no.

Sono volontari, cioè schiavi, del patrimonio. Lo scorso 12 gennaio il manifesto ha dato spazio alla denuncia-choc di Federica: “Volontaria, perché -spiega alla conferenza stampa indetta dalla Cgil per parlare dei referendum sul lavoro- da anni non pare ci sia altro modo di inquadrarci che come iscritti a un’associazione di volontariato. Abbiamo chiesto più volte di incontrare il direttore della Biblioteca, ma appunto in quanto ‘volontari’ ci ha fatto rispondere che non abbiamo diritto a una interlocuzione. Siamo fantasmi -riprende Federica- eppure lavoriamo come tutti i dipendenti”.
Federica è una “scontrinista”: “Raccogliamo gli scontrini della spesa alimentare fatta in un mese, a volte ci vengono dati anche dai dipendenti per solidarietà, quindi li presentiamo alla Biblioteca: a fronte ci viene dato una sorta di ‘rimborso spese’ forfettario, con un tetto massimo di circa 400 euro”.

Nei primi giorni del 2017, il ministero per i Beni culturali ha emanato due bandi per coprire 1.221 posti attraverso volontari. Laureiamo e dottoriamo migliaia di perfetti funzionari dei Beni culturali, la cui unica speranza di non emigrare o lavorare nei call center o in pizzeria è fare, come volontari, il lavoro per cui si sono formati. L’articolo 9 della Costituzione sopravvive distruggendo l’articolo 1: la Repubblica non è più fondata sul lavoro, ma sul volontariato. Uno sfregio perpetrato anche nel Palazzo che più di ogni altro dovrebbe garantire la Costituzione: il Quirinale. Nel giugno del 2015 il presidente Mattarella ha ampliato l’apertura del palazzo presidenziale alle visite dei cittadini: un’ottima idea, se non fosse che il tutto è stato affidato ai volontari del Touring Club.

Non molti ricordano che l’uso del volontariato nei beni culturali iniziò con quella stessa Legge Ronchey (governo Amato, 1992) che metteva il patrimonio culturale nelle mani di pochi concessionari for profit: mentre lo Stato dava ai privati i servizi redditizi, stabiliva anche di non mantenere il proprio organico, e di avviare così la distruzione delle professionalità interne, preferendo ricorrere a volontari. E infatti il ricorso strutturale al non-profit-per-disperazione è una copertura per la commercializzazione del patrimonio e per il simultaneo, e ormai definitivo, congedo di uno Stato in fuga. E, dunque, quando visitiamo un museo o andiamo in biblioteca, cerchiamo di conoscere i fantasmi che li tengono aperti per noi. Parliamoci: ascoltiamo le loro storie. Noi abbiamo bisogno del loro lavoro, loro hanno bisogno della nostra solidarietà, che possa aiutarli a recuperare un corpo, un volto, una dignità. Prove di politica dal basso, nella solitudine della post democrazia di un’Italia senza Sinistra.

Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Il suo ultimo libro è “Privati del patrimonio” (Einaudi, 2015)

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