Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura

Scavalcando il muro

Un itinerario fra sei città, tre in Israele e tre in Palestina. Un “viaggio possibile” per ridare significato alle parole pace e convivenza Sono partito da Akko. Che sta nel Nord di Israele, sul mare, in alta Galilea. A pochi…

Un itinerario fra sei città, tre in Israele e tre in Palestina. Un “viaggio possibile” per ridare significato alle parole pace e convivenza


Sono partito da Akko. Che sta nel Nord di Israele, sul mare, in alta Galilea. A pochi chilometri dalla frontiera con il Libano. Ma non volevo partire perché il chiostro musulmano di al-Jazzar, la grande moschea dalla cupola verde della città vecchia di Akko (che per i palestinesi è Akka e per i crociati era stata San Giovanni d’Acri), è un luogo di tranquillità e di pace.

Le moschee dell’Islam sono spazi di serenità in mezzo alle città di Israele/Palestina.

Il primo (e fallito) piano di spartizione di questa terra, santa e maledetta, varato dalle Nazioni Unite nel 1947, assegnava Akka al futuro Stato della Palestina. La prima (e feroce) guerra fra Israele, Stato appena nato, e i Paesi arabi del Medioriente, spazzò via quei confini. Gli abitanti di Akka fuggirono in Libano e divennero profughi a vita.

Nella città vecchia, negli anni 50, andarono a vivere gli ebrei della diaspora che arrivarono in Israele dai Paesi arabi.  Venivano dall’Egitto, dal Marocco, dalla Tunisia. Poi anche loro, appena fecero un po’ di fortuna, traslocarono verso la città nuova: non era facile abitare nelle case della old Akko. Al loro posto, lentamente, si installarono altri palestinesi: gente delle campagne della Galilea, cittadini di seconda classe di Israele, arabi che lasciavano i loro campi e cercavano un futuro in città. Sono gli esodi e i controesodi che hanno attraversato questa terra senza pace. Oggi, ad Akko, città che avrebbe dovuto essere palestinese, vivono cinquantamila abitanti. Solo diciassettemila sono arabi. La vecchia Akko-Akka, arroccata dentro le antiche mura crociate e ottomane, è città splendente: ha conservato, fra minareti e campanili, gli equilibri, gli odori, i sapori, la bellezza caotica di una città araba del Mediterraneo. È piacevole fare il turista per queste strade selciate.



Da Akko parte il “viaggio possibile”. Un viaggio che ha uno scopo: scrivere sei guide a sei città, tre in Israele e tre in Palestina; progettare un itinerario che dalla modernità occidentale, multietnica e mediterranea di Haifa raggiunga la fornace (per il caldo estivo) mediorientale di Gerico. Che da Tayibeh, sobborgo interamente arabo in terra di Israele vada fino Nablus, città da sempre resistente e ribelle all’occupazione israeliana. Che da Akko discenda Israele fino a varcare il Muro (la barriera difensiva, secondo Tel Aviv) per arrivare a Tulkarem, vecchio villaggio rurale della Palestina.

Strano viaggio, strano pensare al turismo mentre la pace appare, qui, fra Palestina e Israele, una parola stanca e priva di significato. Strano viaggiare per queste terre mentre sai che a Gaza, dove, in un territorio grande quanto la provincia di Prato, un milione e mezzo di palestinesi annaspano in una immensa e irreale (ma realissima) prigione. Strano parlare di turismo e di “viaggio possibile” quando ci si spara addosso fra gli stessi palestinesi. Non ha una terra, la Palestina: la West Bank è controllata, con durezza e arroganza, da Israele.

406 chilometri di Muro -quasi altri quattrocento in via di costruzione-, oltre cinquecento check-point, caserme come castelli feudali sulle vette delle colline, 121 insediamenti di coloni. E il suo popolo, dodici milioni di palestinesi, è per due terzi disperso nella diaspora. In West Bank, più piccola della provincia di Perugia, vivono due milioni e mezzo di palestinesi. Oltre che Santa, Israele/Palestina è una Terra Stretta.



Eppure questo viaggio, fuori dagli itinerari più consolidati e abusati del turismo dei pellegrinaggi, è davvero possibile, almeno per gli stranieri che hanno il privilegio, a differenza dei palestinesi, di muoversi, con relativa libertà, di qua e di là del Muro. E, assurdo per assurdo, è un viaggio lunghissimo e brevissimo. È breve perché fra Akko e Gerico ci sono meno di 200 chilometri. È senza fine perché lungo questi chilometri ci sono mondi, universi, comunità, storie, religioni, tensioni, oasi di pace e luoghi di guerra, profughi e migranti, sionisti e musulmani, cristiani e adepti di sette improbabili. Sono tutti racchiusi in un fazzoletto di terra. Che può essere lunghissimo perché è spezzato dal Muro e dai check-point. Il “viaggio possibile” scavalca questi i lastroni di cemento, a volte alti fino a otto metri, che dividono questa terra e sfiora di continuo la realtà più profonda di Israele/Palestina. Al di là di ogni stereotipo o pregiudizio. Non è quindi strano, ma, anzi, è saggio parlare di turismo nella Terra Stretta. Perché questo cammino, lungo strade quasi ignorate dai viaggi organizzati (oltre un milione di turisti lo scorso anno) rende visibile il mondo reale di Israele/Palestina, con il suo carico di bellezza e sofferenze, di speranze e rassegnazione.



La German Colony è la strada della vita notturna di Haifa.

E Haifa è la città rivale di Akko. Il suo porto, costruito dagli inglesi negli anni del Mandato sulla Palestina, privò del mare i suoi abitanti e cancellò dalla geografia dell’economia mediterranea il piccolo approdo di Akko. Haifa è moderna, spavalda, arrogante, multietnica, laica. “La nostra fortuna è che qui non sono mai passati né Gesù, né Maometto, né Mosè”, mi ha spiegato Hani Helfer, allora presidente della Beit Hagefen, “La casa della foglia della vite”, centro di coesistenza fra musulmani, ebrei e cristiani. Non ci si contendono luoghi sacri ad Haifa. Anche se qui le nuove religioni, il Bahà’i, la più giovane (è nata a metà dell’800 da una costola dell’Islam in Persia) fra le fedi monoteistiche, hanno avuto la spudoratezza (e il consenso delle autorità cittadine) di cambiare perfino lo skyline della città con il loro tempio fuori misura. Il santuario di Bàb, martire ottocentesco di questa religione, è diventato il simbolo turistico della città.

A sera, i giovani affollano la German Colony. Sono gli immigrati russi, le figlie dei falasha etiopi e i figli della piccola borghesia araba che non fuggì nel 1948 (se ne andarono in 60 mila allora, minacciati dalle milizie dell’Irgun, ala estremista del movimento sionista. Oggi sono solo 38 mila gli arabi di Haifa su 300 mila abitanti). I pub della German Colony sono affollati dai giovani israeliani che non rispetteranno mai i doveri religiosi del shabbat. Arabi, ebrei, russi, etiopi passano le notti fianco a fianco in questa elegante strada. Tutti mangiano hummus, la deliziosa crema di ceci, il piatto base di ogni pranzo popolare in Israele come in Palestina e il locale più amato della German Colony è il Fattoush, un raffinato garden-restaurant arabo. Ma sapete quanto è distante Jenin e la sua disperazione da Haifa? Meno di sessanta chilometri.



L’hummus è, davvero, una buona guida per amare questa terra. Se al Fattoush sono i ragazzi del venerdì sera a godersi questo prelibatezza, a Tayibeh, malandata cittadina arabo-israeliana (il bilancio comunale è disastrato, le fogne si rompono ogni giorno, il 70% delle strade non è asfaltato) gli israeliani di Netanya, città balneare a meno di venti chilometri di distanza, si perdono in un labirinto di vie senza uscita pur di andare a gustarsi l’hummus di Abu Said, celebre palestinese che, da mattina a sera, macina grandi catini di ceci. L’hummus, per i pochi minuti in cui ci affondi il pane arabo, affratella i nemici. È come se fosse memoria comune di due comunità rivali.  

A Tayibeh non c’è nulla da vedere (non è vero, ma facciamo finta che lo sia), è una periferia urbana cresciuta senza anima, i suoi abitanti lavorano a Tel Aviv o a Gerusalemme, tornano a casa solo per dormire. Eppure qui bisogna venire per capire il contraddittorio destino da sradicati dei palestinesi di Israele

(un milione e trecentomila persone su sei milioni di abitanti). Tayibeh, nel 1948, dopo la prima guerra arabo-israeliana, divenne città di Israele, finì dalla parte “sbagliata” della Linea Verde. Non andò così a Tulkarem, la cittadina sorella. Che oggi è al di là del Muro. Raggiungibile (solo da noi stranieri) attraverso un lungo periplo di check-point e varchi nei reticolati (eppure ci vorrebbero cinque minuti per andare da una città all’altra). Tayibeh e Tulkarem si guardano allo specchio della loro diversità provocata da sessanta anni di divisione artificiale. A Tayibeh le donne sono senza velo. A Tulkarem è l’opposto. Qui il centro della città è, ogni mattina, un tumulto di bancarelle. A Tayibeh si va a fare la spesa ai supermercati.

Le due città sono lo specchio di una doppia identità.



A Tulkarem cominciano le montagne della Palestina.

Il paesaggio si fa di pietra e di ulivi. Le strade salgono e scendono di continuo. Qui si entra nella storia Palestina storica. Andiamo a Nablus, la città fondata dai romani, erede di villaggi biblici, sorta alle pendici della montagna sacra di Gerizim.

Nablus è accerchiata. È, da sempre, una città ribelle. Nel 1936, la rivolta araba contro gli inglesi, qui, fu indomita. Negli anni 60 i figli di quella ribellione cercarono di creare proprio qui un embrione di repubblica indipendente. I controlli ai check point di Nablus sono severi, bruschi, spesso cattivi. A volte interminabili. La città ripaga la fatica e le apprensioni (la notte la tensione sale e frequenti sono le incursioni israeliane): la sua antica casbah è bellissima, i vicoli dei suoi mercati sono “avvolti nei profumi dell’olio di sesamo, dell’olive triturate”, della kanafa, celebre dolce di miele e formaggio, delle spezie di tutto il mondo. Nablus è città di mercanti, di potenti famiglie palestinesi, qui è stata aperta la Borsa palestinese. Qui si trovano due antichi saponifici, eredi superstiti di una tradizione artigianale che fece la ricchezza di Nablus. Ma, e bisogna esserne ben consapevoli, la città ha un doppio volto: di giorno, fino a metà della notte, è città assediata, ma tranquilla, quasi frenetica con il suo andirivieni di taxi, caotica con i suoi affollati mercati; di notte, passata l’una, è teatro di un coprifuoco non dichiarato, di una guerra a bassa intensità, di sparatorie, di irruzioni dell’esercito israeliano fra i vicoli della città vecchia e dei campi-profughi (Tell Balata, alle porte di Nablus, è la più grande fra le periferie di disperazione della Palestina) in caccia di palestinesi ricercati. All’alba, nel teatro di questa assurda (e realissima: c’è chi muore in queste battaglie) rappresentazione del conflitto, la città riprende la sua vita.



Anche Gerico è città accerchiata, aggirata da una by-pass road israeliana, sorvegliata da check-point e caserme. Ma la differenza con Nablus è palpabile. Questa è una città pigra, dai tempi rallentati, dal clima torrido (ma piacevole in inverno). Fu la prima città che, dopo gli accordi di Oslo, venne riconsegnato alle autorità palestinesi. Qui perfino i controlli dell’esercito israeliano appaiono svagati, quasi distratti. A Nablus, alle ultime elezioni ha vinto un candidato di Hamas (e quasi subito incarcerato da Israele). Gerico, invece, è considerato un feudo di Fatah, il vecchio partito di Arafat. Che qui volle costruire un colossale casinò dove arabi del Golfo e israeliani venivano a giocare d’azzardo. Dava lavoro a oltre duemila persone. Venne chiuso negli anni della seconda Intifada. L’oasi di Gerico, con i suoi terreni fertili, la bontà dei suoi datteri, la limonata alla menta (i limoni qui hanno un sapore forte e aromatico), è un altro, l’ennesimo volto della Palestina.

Dal Mediterraneo alla valle del Giordano. Il fiume sacro (ma il suo corso si è quasi disseccato) della Palestina è a pochi chilometri da Gerico. Ma è irraggiungibile. Zona di frontiera, zona militare. Il “viaggio possibile” arriva fino a qui: ha conosciuto difficoltà, dubbi, momenti perfetti. Ha scavalcato non solo l’oscenità del Muro, ma anche i fili spinati delle barriere dei pregiudizi e delle antipatie reciproche. Il “viaggio possibile” ci ha aiutato a immaginare non solo le paure,

ma anche le speranze. Non è poco in Israele/Palestina.



Il commento

La chimera Annapolis

Da dove si partirà alla conferenza di pace di Annapolis, negli Stati Uniti, prevista per novembre? Si dovrebbe cominciare là dove israeliani e palestinesi si sono lasciati.

A Camp David. Estate 2000. Il vero problema, però, è che nessuno degli scogli che non fu possibile superare -e non solo per colpa di Yasser Arafat- rappresenta ora un ostacolo meno imponente sulla strada della pace. I confini dei due Stati che dovrebbero convivere in sicurezza uno accanto all’altro. Gerusalemme capitale per entrambi. I rifugiati palestinesi e il diritto al ritorno. Nei sette anni che son trascorsi, dal fallimento di Bill Clinton, Ehid Barak e Arafat, i tre punti nodali del conflitto israelo-palestinese sono, semmai, diventate questioni ancor più difficili da risolvere.

I confini, per esempio: il ritorno alla Linea Verde del 1967, che persino ora il presidente palestinese Mahmoud Abbas continua a volere, viene considerata irrealistica dagli osservatori, e impossibile da concedere da parte degli israeliani.

Le colonie sono aumentate, e continuano ancor oggi a espandersi, incuranti delle richieste  di fermare i lavori. Il Muro di separazione viene costruito in tutta fretta.

E cedere su questi due punti vorrebbe dire, per il premier israeliano Ehud Olmert, mettere a rischio il suo governo, espressione di una leadership considerata debole dagli stessi israeliani. Così come sarebbe impossibile cedere su Gerusalemme, come ha esplicitamente detto il presidente Shimon Peres, mettendo un punto fermo sulle ipotesi di dividere la città e consentire anche ai palestinesi di avere la propria capitale nel luogo sacro alle tre religioni del Libro.

Riguardo ai rifugiati, poi, gli israeliani non solo non cedono sulla possibilità del diritto al ritorno. Ma anche la stessa compensazione sembra un’araba fenice, perché dovrebbe andare di pari passo al riconoscimento della responsabilità dello Stato d’Israele nel 1948.

Cos’è, dunque, Annapolis? Per alcuni, rimane una chimera. Una tranquilla località del Maryland lontana anni luce da quel miscuglio di dolore, sfiducia, odio, ingiustizia, disperazione che è diventata quella fetta del Medio Oriente, dove ogni giorno -ancora oggi- va in onda il conflitto più difficile. Per settimane, la confusione è regnata sovrana persino sulla data di un meeting che il presidente americano George W. Bush aveva invece annunciato in pompa magna. Come la panacea che avrebbe risolto tutti i mali della regione.

E portato almeno un risultato d’immagine a un’amministrazione, quella di Washington, che nella regione ha all’attivo, da quattro anni, solo insuccessi.

Calendario a parte, è lo stesso significato di un incontro, di una stretta di mano, di una foto e di tanti sorrisi di circostanza a porre le domande più imbarazzanti. Per tutti. Cosa significa, insomma, Annapolis? L’ennesima kermesse in cui la parola “pace” risuona dappertutto senza alcun riscontro nella realtà quotidiana del Medio Oriente? Oppure è il luogo dove sancire un risultato minimo per una leadership palestinese, quella di Abbas, che però governa solo su di un pezzo di Palestina, e sperare che un pezzo di carta riesca a sostenere una dirigenza debole?

O ancora, è il risultato massimo per Israele, la conferma su di un pezzo di carta di quello che è già un dato di fatto: le colonie, Gerusalemme i rifugiati? E se questi saranno i risultati di un possibile incontro di “pace”, quanto durerà questo tipo di pace? Una generazione, oppure anche meno?   



*Paola Caridi è corrispondente da Gerusalemme per l’agenzia stampa Lettera22.

È autrice di “Arabi invisibili” (Feltrinelli)


Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.