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Cultura e scienza / Intervista

Sara Zambotti. Come i media costruiscono il nostro immaginario

Sara Zambotti, classe 1977, da sette anni conduce con Massimo Cirri “Caterpillar”. Nel 2008 ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia dei media con Ugo Fabietti, uno dei massimi esperti italiani - © Tonino Sgrò

Ieri le “radio rurali” degli anni Trenta, oggi i social network: così i canali influenzano lo sguardo sulla realtà. Intervista alla conduttrice di “Caterpillar” su Radio2

Tratto da Altreconomia 204 — Maggio 2018

Incontriamo Sara Zambotti vicino agli studi di Rai Radio Due, in corso Sempione, a Milano. Da sette anni infatti è, con Massimo Cirri, voce del programma “Caterpillar”, uno dei pilastri del palinsesto del canale del servizio pubblico. Ma la conduzione radiofonica non è il suo unico mestiere.

Nel 2008 hai conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia dei media con Ugo Fabietti, uno dei massimi studiosi italiani (scomparso proprio un anno fa). Per alcuni anni hai insegnato antropologia dei media all’Università Bicocca di Milano e oggi insegni la materia alla Statale di Torino.
SZ Occupandosi di sistemi culturali l’antropologia cerca di comprendere perché la pensiamo diversamente in giro per il mondo, perché assistiamo a una così ampia diversità e ricchezza. Tuttavia la disciplina è arrivata tardi allo studio dei mezzi di comunicazione, ovvero a comprendere come i media siano fattori di identità. Quindi studiamo la loro organizzazione, e le modalità con le quali influiscono sulla vita degli esseri umani. A partire dal radicamento di idee su vari argomenti, come genere, migrazione, religione. Ogni ricercatore ha il suo specifico filone, ma in generale si utilizzano gli strumenti dell’etnografia, l’osservazione sul campo. Ad esempio l’antropologa di origine palestinese  Lila Abu-Lughod ha lavorato a lungo al Cairo, in Egitto, con le collaboratrici domestiche che guardavano in tv soap opera di produzione statunitense: il risultato sono analisi molto interessanti su come le persone, esponendosi a certi tipi di narrazione, tendono a modificare il modo di raccontare se stesse. È anche questo che intendiamo quando parlare di “colonizzazione dell’immaginario”.

Tu ti sei concentrata in particolare sulla radio.
SZ Sono partita dallo studio del ruolo della radio nel periodo del colonialismo italiano in Africa; tra l’altro va notato che c’è un filone dell’antropologia italiana che insiste molto sul fatto che in Italia abbiamo la tendenza a rimuovere quel periodo, quei fatti e certamente quelle responsabilità. A quell’epoca l’Eiar (l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche, che poi sarebbe diventato la Rai, ndr) utilizzava camioncini che trasmettevano per le strade dei Paesi occupati -una radio ambulante- programmi propagandistici di vario tipo, comprese canzoni di regime tradotte in arabo. Negli stessi anni in Italia si diffondeva la radio rurale: il regime portava la radio nelle campagne, dove vivevano -al contrario di oggi- la maggior parte delle persone, perlopiù analfabete. Un po’ come il maestro Manzi che apparve in tv anni dopo, la radio era uno strumento innovativo per educare: ho ritrovato quaderni scritti da bambini negli anni Trenta e mi sono stupita nel rendermi conto che molte di quelle iniziative erano piuttosto interessanti. Ho condotto uno studio etnografico anche in Rai e, come spesso accade, solo durante l’osservazione è emersa chiaramente la vera “domanda” di ricerca. E in quegli anni era il profondo cambiamento che l’avvento del digitale stava portando nel settore, a partire dalla relazione tra i lavoratori e dalla flessibilità del rapporto di lavoro.

Internet e social media hanno modificato il nostro “immaginario”.
SZ Un antropologo che apprezzo molto, l’indiano Arjun Appadurai, si è a lungo occupato delle “riconfigurazioni” culturali connesse alla globalizzazione e ai media moderni. Ha teorizzato flussi globali che attraversano il mondo, definendoli panorami: in campo finanziario, tecnologico, etnico e con riferimento ai media. I media sono oggi un grande attore nell’influenzare l’immaginario collettivo; ma l’immaginario non è neutro: è una forza sociale, il passaggio precedente all’atto. Prima immagini una cosa, poi la fai, al contrario della fantasia, che è a se stante. Ad esempio nei grandi panorami di migrazione contemporanei tutti i media che danno voce alle varie diaspore sono attori che influenzano le scelte di chi non è ancora partito. È sempre stato così, ma l’avvento del digitale ha amplificato l’effetto, se pensiamo -sempre per rimanere nel mio campo- alla diffusione delle web radio: uno strumento semplice che crea però legami transnazionali. E anche solo guardando i social network, cerchiamo di capire se, fuori dal web, esistono anche comunità “reali”, capaci di rafforzare o costruire un’identità nazionale per chi è all’estero.

Il mezzo non è neutrale.
SZ In antropologia ci sono vari approcci, e uno fra questi è studiare come i media diffondono determinate rappresentazioni di alcuni fenomeni. Questo filone di studio analizza soprattutto il contenuto delle rappresentazioni tramite uno studio delle parole utilizzate più frequentemente, dei toni emotivi a cui si collega quell’evento in particolare. Di solito l’antropologo inserisce in questa analisi il punto di vista di un “lettore”, c’è molta attenzione alle “ricezione” di ogni testo. Il mezzo cambia la percezione. Quando arrivò la radio nelle zone rurali italiane, il tipo di interazione normale era solo quella vis-à-vis. Non c’era interazione a distanza, se non attraverso i giornali, che però in pochi erano in grado di leggere. Quale può essere stato l’impatto di una scatola che ha portato una voce di cui non si riconosceva la sorgente? La radio ebbe un impatto anche percettivo. A leggere quello che si scrisse allora, si ritrova la stessa retorica, quasi le stesse parole, che oggi vediamo, ad esempio in tema di realtà virtuale.

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