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Diritti / Approfondimento

Salute mentale: le persone al centro, nel segno di Basaglia

Ragazzi con disagi di natura psichiatrica, lavorano nel terreno confiscato alla camorra e coltivato biologicamente. (© Mauro Pagnano)

Nuove sfide e buone pratiche della presa in carico del disagio psichico, a quarant’anni dall’entrata in vigore della legge 180 che aveva previsto la chiusura dei manicomi e il superamento dell’equazione tra malattia mentale e pericolosità sociale

Tratto da Altreconomia 203 — Aprile 2018

Sugli undici ettari di terreni confiscati alla camorra a Casal di Principe è tornata a vivere un’antica tradizione: piantine di vite asprinio -un vitigno autoctono- coltivate accanto a giovani pioppi, che ne diventano il supporto negli anni a venire. Il recupero della tecnica della “vite maritata a pioppo” fa parte del progetto avviato nel 2005 dalla cooperativa “Eureka” nella cogestione dei “PTRI” (Progetti terapeutici riabilitativi individuali) attivati dall’Asl di Caserta a favore di persone con problemi di salute mentale. Uomini e donne che si prendono cura delle viti (sul terreno crescono anche alberi da frutto), partecipano alla vendemmia e alla produzione del vino “Vitematta”. Un progetto che si inserisce all’interno della sperimentazione del “Budget di salute”, avviato nei primi anni Duemila in provincia di Caserta. I fondi che dovrebbero essere usati per la gestione puramente sanitaria delle persone con disagio psichico (ricoveri e farmaci) sono stati spostati su altri capitoli di spesa: costi per la casa, percorsi di formazione e di avviamento lavorativo. In altre parole: per costruire una vita sociale ricca. Che per Franco Basaglia, padre della legge che nel 1978 ha portato alla chiusura dei manicomi, rappresenta uno degli obiettivi fondamentali da raggiungere per realizzare un percorso di cura efficace.

“I primi risultati della sperimentazione dei progetti terapeutici individualizzati ci hanno fatto capire che avevamo ragione -ricorda Peppe Pagano, vicepresidente del consorzio Nuova Cooperazione Organizzata di cui fa parte la cooperativa Eureka-. La distribuzione dei farmaci si era ridotta del 30% e i ricoveri del 70%. Avevamo ridotto la spesa ed era aumentata la platea delle persone che usufruivano dei servizi”.

Oggi, attorno alle cooperative che fanno parte di NCO ruotano un centinaio di persone, tra chi ancora non ha completato il proprio percorso riabilitativo e chi lo ha fatto, ma continua a lavorare come socio delle cooperative. Come la pizzeria “Nuova cucina organizzata”, la tipografia, i laboratori di trasformazione di prodotti agricoli, il bed and breakfast che verrà inaugurato a breve.

Il modello di presa in carico è basato su piccoli nuclei residenziali (al massimo sei persone all’interno di una stessa struttura) fortemente legati al territorio. “All’inizio non è stato facile: gli abitanti della zona si aspettavano i serial killer per le strade -ricorda Peppe Pagano-. Un altro problema da affrontare era dato dal fatto che i gruppi di convivenza rischiavano di diventare ulteriore motivo di isolamento: le persone con problemi di salute mentale faticano a integrarsi nel tessuto sociale. Così, invece di spingerli verso l’esterno abbiamo fatto in modo che fossero gli abitanti della zona a venire da noi”.

A quarant’anni dall’entrata in vigore, la legge 180/78 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”) che ha portato alla chiusura dei manicomi e al superamento dell’equazione tra malattia mentale e pericolosità sociale mantiene intatta la sua attualità. “Mettere la persona al centro, rispettando i suoi diritti. Questo è il grande insegnamento di Basaglia”, commenta Roberto Mezzina, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, che ha iniziato a lavorare proprio nel 1978: “Una norma che ha segnato un cambiamento importantissimo e irreversibile. Attuale a quarant’anni di distanza”. Il capoluogo friulano rappresenta ancora oggi un modello di eccellenza nella gestione della malattia mentale: 5mila persone prese in carico dal servizio pubblico (20mila in tutta la Regione) con una spesa leggermente inferiore rispetto alla media nazionale: “Un sistema che costa relativamente poco rispetto ad altri che investono le loro risorse sulla residenzialità, spesso gestita da privati e dove si creano grandi comunità in cui le persone restano a vivere per anni”, spiega Mezzina.

Un sistema che, al netto dell’inflazione, costa molto meno anche rispetto al vecchio modello manicomiale: “Il nostro modello di gestione ha un costo che è pari al 39% di quello precedente”. A Trieste si lavora per fare in modo che le persone con problemi di salute mentale possano continuare a vivere a casa propria adeguatamente assistiti. Strutture portanti di questo modello sono i Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, ciascuno dei quali può contare su 30-40 operatori di tutte le professionalità (medici, psicologi, infermieri ed educatori) che mettono a punto progetti personalizzati coinvolgendo attivamente i pazienti e le loro famiglie. Ci sono poi le equipe mobili che seguono le persone fragili a domicilio e una rete di cooperative sociali che ogni anno garantiscono l’inserimento lavorativo per 200-250 persone. Un sistema che già oggi, e ancora di più negli anni a venire, dovrà affrontare sfide impegnative. “Pensiamo alle nuove povertà, alle persone senza casa e senza risorse che arrivano ai servizi di salute mentale solo in emergenza -riflette Mezzina-. Oltre al tema della salute mentale dei cittadini stranieri e dei richiedenti asilo”.

Erasmo, ragazzo con leggeri problemi di natura psichiatrica, durante una pausa dal lavoro nei campi. (© Mauro Pagnano)
Erasmo, ragazzo con leggeri problemi di natura psichiatrica, durante una pausa dal lavoro nei campi. (© Mauro Pagnano)

“Sono convinto che la nuova sfida da raccogliere, anche culturalmente, sia affrontare il tema della malattia mentale tra coloro che vengono da popolazioni diverse -aggiunge don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità di Milano-. Questo è un ulteriore elemento che ci porta a riflettere e interrogarci sull’eredità di Basaglia”. La struttura, voluta dal cardinale Carlo Maria Martini, accoglie oggi circa 140 ospiti: il 70% ha una necessità di salute mentale. Tra questi anche i sei uomini e le due donne accolti nel progetto Sprar, attivo dal 2014 e rivolto esclusivamente a rifugiati e richiedenti asilo con gravi problemi di salute mentale. “Negli anni la nostra utenza è molto cambiata: inizialmente accoglievamo soprattutto homeless, oggi i nostri ospiti sono sempre più migranti. Persone che fuggono da guerre o che hanno subito traumi e torture durante il viaggio”, spiega Laura Arduini, medico specializzata in psichiatria e direttore sanitario della Casa della carità di Milano.

Tra i molti progetti messi in campo dalla Casa della carità ci sono i laboratori di terapeutica artistica e quelli professionalizzanti di grafica e sartoria. “L’ascolto e la centralità della persona, dei suoi desideri sono il fulcro del nostro lavoro -spiega Serena Pagani, coordinatrice del centro diurno-. Partiamo sempre dalla domanda ‘Cosa ti piace fare?’ per avviare una relazione e un percorso terapeutico”. Per Mohamed, giovane maliano, la risposta è stata la sartoria: “Quando è arrivato si trovava in un grave stato di catatonia dovuta alle torture subite e ai farmaci che assumeva per contenere i dolori -spiega Pagani-. Sembrava impensabile che potesse usare una macchina da cucire e invece oggi ha una borsa lavoro”. Uno dei progetti futuri, infatti, prevede l’ampliamento degli spazi del laboratorio di sartoria per trasformare l’attività in una vera impresa sociale con il marchio “Black soul ethical design”.

Ospiti della Casa della Carità impegnate in uno dei laboratori
Ospiti della Casa della Carità impegnate in uno dei laboratori

“Questo modo di lavorare ci pone molte sfide. A partire da quella, lanciata dallo stesso Basaglia, di cercare nuovi linguaggi nella psichiatria -riflette Arduini-. E questo per due motivi: la gran parte dei nostri ospiti non parla italiano e il setting classico dei colloqui non funziona. Inoltre, nella cultura di molti Paesi di provenienza di queste persone la malattia psichiatrica viene negata o è oggetto di grande vergogna. Non è facile accettare una diagnosi, una cura e l’assunzione di farmaci in questo contesto”. Franco Rotelli, psichiatra e allievo di Basaglia, guarda alla legge 180 come a un bicchiere mezzo pieno: “Siamo uno dei pochissimi Paesi al mondo ad avere abolito i manicomi. Ma in molte zone i servizi sono carenti dal punto di vista qualitativo e quantitativo: c’è un’enorme disparità tra i territori”. Per questo motivo Rotelli ha partecipato alla messa a punto di un disegno di legge per “l’attuazione e lo sviluppo” dei principi della 180 che è già stato depositato al Senato: “Chiediamo di incrementare e implementare i servizi, facendo in modo che i Centri di salute mentale restino aperti 24 ore su 24 per dare risposte immediate -spiega Rotelli-. E chiediamo al Parlamento di definire meglio le risorse per la salute mentale”.

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