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Diritti / Opinioni

Salone del libro: l’anticonformismo non è un’arma spuntata

Il coraggio di dire di no (ai fascisti) può portare ad un risultato concreto: perfino in un Paese educato da secoli a dire di sì. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 216 — Giugno 2019
Halina Birenbaum al Salone del libro di Torino 2019 - © www.flickr.com/photos

La vicenda del Salone del Libro di Torino di quest’anno non merita di essere dimenticata tanto presto. I fatti sono noti: il ministro dell’Interno pubblica un libro-intervista con un editore esplicitamente fascista, e personalmente violento, che rende nota la propria prossima presenza al Salone. Il direttore Nicola Lagioia ritiene che “la comunità del Salone possa sentirsi offesa e ferita dalla presenza di espositori legati a gruppi o partiti politici dichiaratamente o velatamente fascisti, xenofobi oppure presenti nel gioco democratico allo scopo di sovvertirlo”. Ma la direzione commerciale, controllata dagli editori e dagli enti locali piemontesi, sostiene di non avere mezzi legali per espellerli e, contemporaneamente, di voler difendere la libertà di espressione anche dei fascisti. A questo punto il collettivo di scrittori Wu Ming seguito da un piccolo gruppo di autori (tra i quali chi scrive) dichiara che non sarà al Salone. Parte una equivoca campagna sul “dovere di andare al Salone”, e il dibattito puntualmente si polarizza sull’andare o non andare (e non sul tener dentro o fuori i fascisti). Alla fine, colpo di scena: il no di Halina Birenbaum, tra gli ultimi deportati nei campi nazisti, costringe Chiamparino e Appendino a fare ciò che evidentemente avrebbero potuto (e dovuto) fare subito, e cioè bloccare i fascisti.

La lezione è innanzitutto morale: l’anticonformismo non è un’arma spuntata. Il coraggio di dire di no può portare ad un risultato concreto: perfino in un Paese educato da secoli a dire di sì ad ogni potere – in questo caso il potere editoriale e politico, ormai privo di ogni senso morale e di ogni ideologia costituzionale. Ho il massimo rispetto per i colleghi e gli amici che, in perfetta buona fede, hanno ritenuto opportuno andare comunque al Salone e fare antifascismo da dentro. Ma è un dato di fatto che se non ci fossero stati dei no, e dei no tanto imbarazzanti da costringere la politica a trovare un briciolo di decenza, avremmo avuto un Salone che metteva sullo stesso piano, quasi fossero due alternative egualmente praticabili, i carnefici e le vittime. Una seconda lezione è meno confortante. Mentre i politici alla fine, e seppur a denti stretti, hanno capito e hanno agito, le due associazioni degli editori (quella dei grandi e quella degli indipendenti) hanno continuato ad essere irremovibilmente passivi fino in fondo. Il loro peso sarebbe stato decisivo: pensiamo ai grandi editori torinesi e milanesi. E invece nulla, sia prima che dopo. Che io sappia, solo le Edizioni del Gruppo Abele sono uscite polemicamente dall’AIE, condannandone l’indifferentismo politico. Ora, in molti continuiamo a scrivere che il consenso ai nuovi fascismi è frutto della diseguaglianza e della povertà prodotte dall’ingiustizia sociale degli ultimi trent’anni e dalla distruzione di scuola e cultura pubbliche. Ed è verissimo. Ma se la zona grigia arriva ad inghiottire i più grandi editori italiani, alcuni dei quali fondati da eroici antifascisti; se l’opportunismo servile che porta a non attaccare frontalmente il nuovo potere assorbe anche chi dovrebbe produrre gli antidoti, allora c’è veramente da preoccuparsi. Se domani un Salvini pretendesse un giuramento di fedeltà come quello che il fascismo chiese ai professori universitari nel 1931, quanti intellettuali, quanti produttori di cultura, quanti autori direbbero di no? È una domanda che mette l’angoscia e chiama alla vigilanza.

Il pensiero critico non è mai stato necessario quanto oggi.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena

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