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Diritti / Attualità

L’industria tessile e la chimera dei salari dignitosi

I brand internazionali della moda promettono stipendi adeguati ai lavoratori ma non mantengono gli impegni presi. La denuncia in un nuovo report della Clean Clothes Campaign: “La povertà nell’industria tessile si sta aggravando. È arrivato il momento che i marchi siano ritenuti responsabili di questo sistema di sfruttamento”

Una formatrice parla con una sarta durante un corso di formazione © Ilo

Il salario minimo nelle fabbriche tessili del Bangladesh non copre nemmeno un quarto della cifra necessaria a una famiglia per sopravvivere. In Romania e in molti altri Paesi europei il gap è ancora più evidente: i lavoratori guadagnano solo un sesto di quello che servirebbe a vivere dignitosamente e a mantenere una famiglia. A seguito di questa situazione, i lavoratori sono costretti a vivere in condizioni di sovraffollamento, spesso non sono in grado di mandare a scuola i propri figli o sono costretti a contrarre debiti per affrontare le spese quotidiane. Per cercare di far quadrare i conti, in molti casi i lavoratori sono costretti ad accettare turni straordinari eccessivi.

È quanto emerge dal rapporto “Tailored Wages 2019: The state of pay in the global garment industry” curato dalla “Clean Clothes Campaing”, che analizza il comportamento di 20 brand internazionali dell’abbigliamento per quanto riguarda l’impegno a garantire ai propri lavoratori un salario dignitoso (living wage) che deve essere corrisposto nel quadro di una settimana lavorativa di 48 ore e che permette di “soddisfare le esigenze di base di un lavoratore e della sua famiglia”: l’acquisto di cibo, il pagamento di un affitto, le spese di trasporto e quelle sanitarie, i costi per l’istruzione dei figli e la possibilità di risparmiare dei soldi. L’85% dei brand presi in esame si era impegnato garantire salari sufficienti a coprire le esigenze fondamentali dei lavoratori (in molti casi promettendolo da almeno un decennio) ma nessuno ha mai concretamente messo in atto una politica di salari equi.

La bocciatura della “Clean Clothes Campaign” è totale. Delle 20 compagnie prese in esame, 19 hanno ricevuto il punteggio più basso possibile. In altre parole: nessuna è stata in grado di dimostrare che ai lavoratori impegnati nella produzione è stato pagato un salario sufficiente per vivere in condizioni dignitose nel proprio Paese. Tra i marchi incriminati ci sono Adidas, Amazon, C&A, Decathlon, Fast Retailing, Fruit of the Loom, GAP, G-Star RAW, H&M, Hugo Boss, Inditex, Levi Strauss & Co., Nike, Primark, Puma, PVH, Tchibo, Under Armour, and Zalando. Parziale eccezione per Gucci, i cui lavoratori possono permettersi (almeno) di mantenere una famiglia in alcune aree del Centro e del Sud.

“A cinque anni di distanza dalla nostra precedente ricerca su questo tema, nessun marchio è stato in grado di provare alcun progresso verso il pagamento di un salario sufficiente. La povertà tra i lavoratori del tessile sta aumentando -commenta Anna Bryther, autore del rapporto-. Il nostro messaggio ai brand è che i diritti umani non possono aspettare e che i lavoratori che producono i nostri vestiti devono essere pagati a sufficienza per poter vivere in condizioni dignitose”.

“Le iniziative volontarie non sono state in grado di garantire i diritti umani dei lavoratori”, è il commento di Neva Nahtigal della “Clean Clothes Campaign”, che punta il dito contro un sistema economico che spinge i prezzi dei prodotti verso il basso e spinge così i Paesi a una competizione al ribasso: “I lavoratori che producono quasi tutti i capi d’abbigliamento che acquistiamo vivono in povertà e questo è un fatto. Mentre i grandi brand si arricchiscono sul loro lavoro. È arrivato il momento che questi marchi siano ritenuti responsabili di questo sistema di sfruttamento che essi stessi hanno creato e da cui traggono profitto”, conclude Neva Nahtigal.

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