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Oltre Savoini: perché la Russia non è un partner strategico per l’Italia

Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte

Il Paese è economicamente fragile e dipendente quasi del tutto dal settore fossile, condizione che gli impone scelte rischiose. Eppure larga parte della politica italiana dipinge Putin come un nume tutelare a cui legarsi in maniera indissolubile. Non è una scelta vincente. L’analisi di Alessandro Volpi

La recente visita in Italia di Vladimir Putin ha assunto i caratteri dell’evento di grande rilievo politico ed economico. Nell’immaginario di larga parte della politica del nostro Paese appare evidente infatti che la Russia rappresenta un soggetto internazionale di primissimo piano, in grado di occupare un posto centrale a livello planetario alla stregua di Stati Uniti, Cina e Unione europea.
In quest’ottica, avere buone relazioni con il potere moscovita viene considerata una condizione favorevole e destinata a bilanciare eventuali tensioni con i partner del Vecchio continente e con altre aree del mondo. Ma è davvero così? Davvero la Russia possiede i caratteri della grande potenza internazionale, capace di interpretare una strategia globale dalla quale il nostro Paese può trarre significativi benefici? Certamente l’ex impero sovietico dispone ancora di una straordinaria forza militare; è una potenza nucleare, ha una formidabile flotta di sottomarini lanciamissili balistici e una efficacissima riserva di bombardieri strategici. A fronte di questo “peso”, che la rende un player decisivo nei vari scenari di crisi, la Russia appare però molto più debole sul piano economico.

Il suo Pil si ferma a 1.700 miliardi di dollari ed è dunque un dodicesimo di quello degli Stati Uniti e un ottavo di quello cinese, ma è inferiore anche a quello di altri Paesi come Giappone, Germania, Inghilterra, Francia e Italia, collocandosi al dodicesimo posto nella graduatoria mondiale. Il Pil pro capite è inchiodato da tempo, in termini nominali, a poco più di 10mila dollari che, misurati in termini di parità di potere d’acquisto, raddoppiano, scontando tuttavia una pessima distribuzione del reddito con una marcatissima polarizzazione come dimostrano salari medi da 420 euro mensili.

È estremamente carente l’intero sistema delle infrastrutture russe e risulta assai diffusa la corruzione, che colloca il Paese nelle posizioni di testa delle classifiche preparate dalle organizzazioni internazionali. Se è vero che il rapporto tra debito pubblico e Pil, nonostante una crescita ferma all’1,5%, è ancora molto basso, ciò dipende in larga misura dagli effetti del “fallimento” dei conti pubblici alla fine degli anni Novanta che ha permesso di cancellare l’indebitamento pregresso: non a caso il rating dei titoli di Stato è in modo preoccupante assai vicino al livello “spazzatura”. Il rublo ha conosciuto nel corso degli ultimi anni una feroce svalutazione del 50% e, proprio per arginare una crisi monetaria e debitoria, il Paese si è dotato di una straordinaria riserva in valuta estera per quasi 470 miliardi di dollari, una delle più capienti del mondo che pare tuttavia non bastare a mettere in sicurezza la divisa nazionale; l’inflazione infatti è sempre in agguato pur in presenza di un quadro internazionale di pronunciata deflazione. In quest’ottica pesano le sofferenze bancarie e la forte esposizione degli istituti in un panorama dove il credito al settore privato è pari al 55 per cento del Pil.

La fragilità maggiore della Russia deriva, però, dalla sua pressoché totale dipendenza dalle esportazioni di gas e petrolio, e di conseguenza dai loro prezzi. Oltre il 60% delle esportazioni russe è costituito dal settore oil and gas che tiene in piedi, insieme all’industria delle armi, la bilancia commerciale e garantisce la metà della base imponibile russa; se il prezzo dei prodotti energetici rimanesse al di sotto dei 50 dollari al barile per un arco temporale non breve, l’intera tenuta dell’economia verrebbe quindi inevitabilmente messa a repentaglio. Si tratta di un’eventualità tutt’altro che improbabile, viste la crescente produzione statunitense e la continua avanzata dello shale gas, a cui si aggiungono le tensioni interne all’Opec, all’organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, e le forti spinte speculative dei mercati finanziari, pronti a scommettere sui contratti petroliferi tanto da determinarne una costante instabilità. È naturale, allora, che l’intera politica estera perseguita dal presidente Putin sia orientata a mantenere alti i prezzi energetici; una condizione che per essere raggiunta ha bisogno di un rigido controllo dei gasdotti e degli oleodotti, di una sottomissione strategica dei Paesi confinanti e non solo, interessati dal passaggio delle stesse pipelines, e di una serie di accordi, spesso spregiudicati, con altri produttori, a cominciare da Iran e Arabia saudita, per calmierare le estrazioni.

Ma un Paese economicamente fragile, dipendente quasi del tutto da un unico settore che gli impone scelte internazionali rischiose -come del resto hanno dimostrato le tensioni geopolitiche degli ultimi anni in cui è stata coinvolta la Federazione russa- può rappresentare il nume tutelare a cui legare in maniera indissolubile le sorti del nostro Paese? E soprattutto può l’Italia, in parte dipendente dalle importazioni di energia e che quindi ha bisogno di prezzi bassi di gas e petrolio, vincolarsi a un Paese come la Russia, che al contrario, necessita di alti prezzi degli stessi prodotti per garantire la propria sopravvivenza? Se non si cede alle suggestioni sovraniste, o non prevalgono ragioni ben poco geopolitiche, la risposta non è poi così difficile.

Università di Pisa

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