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Riuscirà il capitalismo nell’impresa di sopravvivere a se stesso? – Ae 15

Numero 15, marzo 2001 Francesco Gesualdi intervista Jorge Beinstein, argentino, professore di economia all’Università di Buenos Aires e dell’Avana, rifugiato politico in Francia dal 1976 al 1986, durante la dittatura militare argentina. Che ha una sua idea sul capitalismo: “Come Roma,…

Tratto da Altreconomia 15 — Febbraio 2001

Numero 15, marzo 2001 

Francesco Gesualdi intervista Jorge Beinstein, argentino, professore di economia all’Università di Buenos Aires e dell’Avana, rifugiato politico in Francia dal 1976 al 1986, durante la dittatura militare argentina. Che ha una sua idea sul capitalismo: “Come Roma, che non cadde per i barbari…”

Lei ha affermato che il capitalismo sta entrando in una crisi di proporzioni mondiali. Vuole spiegarci meglio cosa sta succedendo?
Preciso che la crisi parte dal Nord del mondo, dove si trova il cuore del sistema capitalista. Si tratta di una crisi che ha molte similitudini con quella del 1929 e che per semplicità definiamo di sovrapproduzione. La ragione di fondo è l’ossessione delle imprese di ottenere profitti sempre più alti. Tutti sanno che una delle strategie chiave per questo è la diminuzione dei costi ed in particolar modo, quello del lavoro. Detto in maniera molto sommaria, tra il 1960 ed il 1980, i lavoratori europei e statunitensi hanno avuto abbastanza forza per respingere gli attacchi padronali. Ma dal 1980 la situazione è cambiata ed è iniziata un’offensiva lungo tre traiettorie: la flessibilità, l’automazione e il trasferimento della produzione nei Paesi a bassi salari. L’effetto è stato un aumento della disoccupazione e una diminuzione dei salari. Produzione e profitti sono cresciuti, ma le vendite non altrettanto perché la massa salariale mondiale non ha tenuto il passo.

Se il processo è iniziato una ventina di anni fa perché gli effetti si avvertono solo oggi?
Premesso che in questo ventennio si sono registrate fasi alterne, si può dire che fino ad oggi la crisi è rimasta contenuta per tre ragioni di fondo. La prima è che in Europa è continuato, seppur in maniera affievolita, l’intervento dello Stato per sostenere l’economia.
La seconda ragione è che gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo di traino dell’economia mondiale consumando ben al di sopra delle proprie possibilità. Approfittando dell’arrivo di grandi quantità di capitale straniero, hanno stimolato forme di consumo interno basate sul debito tant’è che hanno accumulato un debito commerciale verso l’estero di 300 miliardi di dollari.
La terza ragione è che nell’ultimo decennio si è avuta una rivoluzione tecnologica che ha costretto le imprese di tutto il mondo a enormi spese di riammodernamento che in qualche modo hanno sostenuto l’economia. Ma oggi questa corsa sembra volgere alla fine.
Il primo settore che ha cominciato a mostrare la corda è quello automobilistico che ha annunciato il licenziamento di migliaia di lavoratori.

Che rapporto c’è tra finanza e crisi?
In questi ultimi anni sono cresciute a dismisura le operazioni finanziarie. Quelle operazioni, cioè, che non hanno finalità produttive ma si propongono di guadagnare dalla commercializzazione di qualsiasi bene che può cambiare di valore nel tempo.
Quando le operazioni finanziarie di tipo speculativo prendono molto campo si parla di  finanziarizzazione dell’economia che è una costante di tutte quelle situazioni in cui la ricchezza è pesantemente mal distribuita a favore dei profitti.
Di solito i capitalisti impiegano i profitti per nuovi investimenti produttivi, ma solo se prevedono un ampliamento delle vendite. Purtroppo in epoca di mal distribuzione questo ottimismo non c’è, di conseguenza i detentori di capitale si rifugiano nelle operazioni finanziarie per trovare forme alternative di guadagno. Si intensificano le operazioni di Borsa, la speculazione sulle monete, i prestiti usurai, fino ad arrivare ai traffici illeciti come il commercio di armi, di droghe e di prostitute. Naturalmente quanto più alta è la quota di capitale che entra nel gioco finanziario, tanto più i titoli si rivalutano, tanto più il sistema è stimolato ad andare in questa direzione in una spirale che può raggiungere livelli molto elevati.
Oggi la finanziarizzazione ha raggiunto livelli stratosferici anche per la concomitanza di altri due fenomeni. Da una parte c’è l’alto costo delle tecnologie moderne che richiedono quote di investimento sempre più alte. Per fare fronte alla situazione le multinazionali si fondono fra loro in modo da unire le forze. Ma molte imprese di piccole e medie dimensioni semplicemente rinunciano agli investimenti preferendo buttarsi nel gioco d’azzardo finanziario.
L’altra novità è che nell’ultimo ventennio  buona parte della proprietà delle imprese è passata nelle mani di soggetti finanziari come le assicurazioni, i fondi pensione, i fondi comuni di investimento, che non hanno interesse  a salvaguardare le attività produttive ma solo a realizzare alti profitti nel più breve tempo possibile.
Purtroppo queste istituzioni finanziarie non hanno la cultura della produzione ma del saccheggio, per cui puntano a guadagnare sullo smembramento delle società per rivenderle a lotti e sulla liquidazione dei comparti meno redditizi, noncuranti della gente che mandano a casa.

Oggi ci sono già i segni della crisi?
Direi proprio di sì. Se analizziamo l’economia degli Stati Uniti notiamo la presenza di tutti gli ingredienti tipici di una situazione che si sta avviando verso la crisi: mentre i profitti non sono mai stati così alti, gli investimenti sono in caduta libera. Il risultato è che il tasso di crescita produttiva sta scendendo di anno in anno, fino ad aver raggiunto nel 2000 un esiguo 1,4%. Tutti si aspettano che nell’anno in corso la crescita possa essere uguale a zero.
Per contro notiamo che la corsa verso le operazioni finanziarie è sempre più vasta, e che ha raggiunto una dimensione più ampia di quella esistente al tempo della grande crisi del 1929. Ad esempio, in quell’epoca la percentuale di popolazione statunitense che investiva in Borsa era solo del 3%, mentre oggi è salita al 50%. Ciò dimostra che gran parte del risparmio statunitense, compreso quello delle famiglie, si sta orientando verso operazioni speculative.

Questa situazione di finanziarizzazione provoca danni anche al Sud del mondo?
Molti, perché il modello liberista dominante ha indotto tutti i Paesi del mondo ad aprire la loro porta ai capitali, sia in entrata che in uscita. Ciò pone a rischio soprattutto i Paesi con una certa vitalità economica come quelli del Sud-Est asiatico e dell’America Latina. Quando i grandi gruppi finanziari si rendono conto che in questi Paesi ci sono buone prospettive di guadagno vi si precipitano in massa per acquistare titoli o per concedere prestiti a banche locali. Inizialmente tutto fila liscio, ma poi si innescano una serie di dissesti economici che si concludono immancabilmente con una svalutazione monetaria ed il rialzo massiccio dei tassi di interesse che a loro volta provocano distruzione di posti di lavoro e aumento dei prezzi. Questo è quanto è avvenuto in Messico nel 1994 e nel Sud-Est asiatico nel 1997.

Qual è la sua opinione sul futuro del capitalismo?
Non escluderei una crisi più grave del ‘29 perchè il sistema si è finanziarizzato a tal punto da aver perso dinamismo produttivo. Il sistema è diventato un gigante dalle ossa fragili, per questo io lo definisco capitalismo senile che è molto diverso da quello di 70 anni fa. Il capitalismo dell’epoca aveva vigore e poteva essere paragonato ad un bimbo. Prendeva dei grandi febbroni, ma se riusciva a superare la crisi, quando si alzava dal letto era due centimetri più alto e riprendeva spedito la sua corsa perché aveva una buona corporatura.
Quello di oggi, invece, è un capitalismo che ha dentro di se un cancro che gli sta intaccando la massa muscolare. È vero che al suo capezzale ci sono un sacco di medici e di professori che gli controllano di continuo i parametri vitali. Ma valgono a poco perché si limitano a dargli qualche sintomatico per allungargli la vita. Questo è il lavoro che fanno i governatori delle varie banche centrali, Alan Greenspan in testa. Ma nessuno ha il coraggio di dire che il sistema va sottoposto ad una drastica cura chirurgica per togliergli il cancro della finanziarizzazione che lo corrode da dentro.
Cosa succederà nel prossimo futuro nessuno lo sa. Il capitalismo così come lo conosciamo potrebbe subire un tracollo improvviso per il sopraggiungere di un fatto imprevedibile, come potrebbe andare avanti  in un lungo e lento declino nonostante la sua apparente floridezza.
Ma è certo che il sistema si sta indebolendo e la sinistra non deve farsi sfuggire questo particolare perché questo la rimette in posizione di vantaggio. Ricordiamoci che l’impero romano non cadde per la forza dei barabari, ma per la sua debolezza. Per i barbari fu un giochetto conquistare Roma ormai allo stremo. Quando entrarono trovarono pochissima resistenza e forse vennero addirittura acclamati dalla gente. Diamoci da fare per rafforzare la nostra ipotesi di alternativa per essere pronti a buttare giù con una spallata questo sistema che si sarà quasi distrutto con le sue stesse mani.

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