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Ritorno a Bhopal, 36 anni dopo il più grave disastro della storia industriale

Tra il 2 e il 3 dicembre 1984, nella città indiana, si sprigionò una nube tossica dagli impianti della fabbrica di pesticidi statunitense Union Carbide uccidendo migliaia di persone. A causa dei danni riportati, i sopravvissuti sono tra i soggetti più colpiti dalla pandemia

Alcuni bambini giocano nei pressi del sito della Union Carbide - © Adriano Marzi

“Triste che serva una pandemia per mettere in luce le ingiustizie del peggior disastro della storia industriale”, commenta Rachna Dhingra, portavoce del Bhopal Group for Information and Action, mentre presenta la ricerca condotta negli ultimi mesi tra i sopravvissuti alla nube tossica che la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 si sprigionò dagli impianti della fabbrica di pesticidi statunitense Union Carbide uccidendo migliaia di persone nella città indiana di Bhopal.

Dow Chemical, che nel 2001 ha acquistato la Union Carbide e nel 2017 si è fusa con DuPont formando un colosso da 130 miliardi di dollari, si è sempre rifiutata di riconoscere ogni responsabilità nella vicenda, negando l’eredità tossica del disastro e sostenendo che il 93% delle persone esposte al gas avrebbe avuto soltanto problemi temporanei. “Il nuovo Coronavirus sta mettendo a nudo, una volta ancora, queste menzogne: a causa dei danni polmonari e immunitari riportati in seguito al disastro, il tasso di mortalità per Covid-19 tra i sopravvissuti al gas è oltre sei volte superiore che tra gli altri abitanti di Bhopal, rappresentando più della metà delle vittime in città”, spiega Rashida Bi, leader dei sopravvissuti.

Un bilancio che avrebbe potuto essere ancora peggiore se la Sambhavna Clinic -una fondazione che fornisce assistenza gratuita alle vittime del disastro- non avesse messo in piedi un valido piano di contrasto basato su isolamento e assistenza domiciliare dei malati e su una rete in grado di veicolare le informazioni, tracciare l’avanzata del contagio, fornire cure ai malati. Nelle baracche più grandi degli slum assistiti sono state attrezzate camere in cui isolare chi presenta sintomi di contagio, mentre per le abitazioni di dimensioni troppo ridotte è stata predisposta una serie di tende ai margini di ciascuna comunità. I sistemi di protezione (mascherine, tute, guanti e così via) sono autoprodotti e punti igiene allestiti in ogni comunità. Un’organizzazione possibile grazie a un sistema comunitario coltivato per oltre un quarto di secolo e che potrebbe essere preso come modello nel mondo.

Sono passati 36 anni da quella notte maledetta ma Rashida ricorda bene. “Fu mio marito a svegliarmi. ‘Chi diavolo si è messo a cucinare peperoncini a quest’ora?’, sbraitava tra un colpo di tosse e l’altro. Quando ho aperto gli occhi, sono stata invasa da un bruciore violento. Respirare era quasi impossibile. Da fuori sono cominciate ad arrivare urla disperate. Mi sono affacciata alla porta della nostra baracca e ho visto gente che correva in ogni direzione. In preda al panico ho avvolto il mio ultimogenito in una coperta e ci siamo riversati fuori anche noi. Le strade erano tappezzate di corpi, che spesso venivano calpestati dalla folla disorientata. Siamo finiti all’interno di una scuola, dove qualcuno aveva acceso un fuoco. Soltanto lì, mentre mi sciacquavo la faccia, mi sono accorta che mancava uno dei nostri figli. Sono tornata di corsa indietro e l’ho trovato disteso su un carretto. Privo di conoscenza, lo avevano ammassato su una pila di cadaveri”.

Come ogni anno, l’anniversario del disastro ricade in una tragedia ancora in corso. Secondo le stime di Amnesty International, ottomila persone avrebbero perso la vita solo nelle prime 72 ore dall’esplosione. A queste nei 36 anni successivi si sono aggiunti almeno altri 20mila morti per le conseguenze dell’esposizione al gas. Oggi oltre mezzo milione di persone sopravvive in condizioni disperate, affetto da cronici problemi all’apparato respiratorio, immunitario, neurologico, riproduttivo e intestinale.

I sopravvissuti continuano a doversi battere anche contro una lunga serie di ingiustizie. L’impianto della Union Carbide non è mai stato bonificato e le sostanze tossiche continuano a percolare nella falda acquifera, allargando l’area della contaminazione e il numero delle vittime. Secondo i dati pubblicati in occasione del World Environmental Day 2019, la contaminazione ha già raggiunto centinaia di migliaia di persone. Grazie all’impegno inesauribile degli attivisti, la Corte suprema indiana ha ordinato più volte che le aree colpite vengano rifornite con serbatoi di acqua potabile. Ma ancora oggi i sopravvissuti sono spesso costretti a pompare l’acqua di falda.

Nonostante le prove dell’utilizzo di tecnologie meno sicure rispetto a quelle delle filiali statunitensi, dei tagli sulle misure e sul personale di sicurezza, non è stata riconosciuta alcuna colpa a Warren Anderson, proprietario della Union Carbide. Tutto grazie a un enorme giro di tangenti, svelato da Wikileaks nell’aprile del 2011. Mai estradato in India per affrontare il processo, nel 2014 Anderson è morto ultra novantenne nella sua villa su una spiaggia della Florida. Per i danni subiti, le circa cinquemila vittime riconosciute dal governo indiano hanno ricevuto appena 25mila rupie ciascuna.

In questo dramma senza fine continuano a entrare personaggi degni del teatro dell’assurdo. Da dicembre 2018, Arif Aqueel è il nuovo ministro per “il conforto e la riabilitazione della tragedia del gas di Bhopal”. Noto come “il Leone di Bhopal”, Aqueel è un politico del Congresso che gira attorno a questa vicenda da oltre 20 anni con un atteggiamento più simile a quello di un avvoltoio. Denunciato dalle associazioni delle vittime per la sua inoperosità, Aqueel ha risposto invitando il collega delle Finanze ad aprire un’indagine sui finanziamenti esteri grazie a cui le stesse associazioni garantiscono ai sopravvissuti l’assistenza negata dallo Stato. Il suo predecessore, Vishvas Sarang -un fondamentalista indù del Bjp, che avrebbe dovuto “confortare” le vittime, quasi tutte mussulmane- era finito sotto accusa per malversazione dei fondi destinati ai sopravvissuti.

Abbandonato a sé stesso, il sito dell’ex-fabbrica viene rosicchiato dalla ruggine e ricoperto dalla vegetazione. Il governo vorrebbe aprirlo al pubblico, farne un’attrazione turistica: nel progetto di un’archistar di Delhi ci sono vetrine espositive, calchi in ferro delle vittime, torri d’avvistamento e gallerie per lo shopping. Anche le associazioni delle vittime pensano che dovrebbe diventare un memoriale: “Una volta che Dow avrà provveduto alla bonifica -racconta ad Altreconomia Sathinath Sarangi, fondatore della Sambhavna Clinic- l’area dovrebbe essere conservata così com’è. Qualcosa di simile ai campi di concentramento nazisti”.

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