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Ristrutturare per non fallire

In situazioni di crisi meglio contrattare il debito con le banche, per evitare la chiusura. A vantaggio anche degli istituti di credito —

Tratto da Altreconomia 162 — Luglio/Agosto 2014

A fine giugno i soci di Cir, la holding quotata in Borsa e controllata dalla famiglia De Benedetti, hanno dovuto fare i conti con il profondo rosso della controllata Sorgenia, attiva nel mercato libero dell’elettricità e del gas. Convocati al Palazzo delle Stelline per l’assemblea di approvazione del bilancio consolidato 2013, hanno letto una serie di numeri incredibili: il valore della partecipazione Cir in Sorgenia è sceso a zero, il bilancio della partecipata è negativo per 783 milioni di euro, e su questo dato negativo pesano in modo significativo le svalutazioni degli avviamenti, cioè del valore attribuito agli investimenti realizzati nel corso degli ultimi anni. In particolare, Sorgenia ha abbattuto di 249 milioni quello delle centrali a ciclo combinato, che sono 4 in tutta Italia.
La crisi di Sorgenia -che nel 2013 ha fatturato 2,32 miliardi di euro, registrando un meno 6,9% rispetto al 2012- sarebbe causata dalla congiuntura negativa di mercato, ma i soci -a parte la famiglia De Benedetti, oltre il 2 per cento ci sono la banca centrale della Norvegia (Norges Bank) e gli spagnoli di Bestinver, società di gestione del risparmio del gruppo Acciona- dovrebbero aver la pazienza di tornare al luglio del 2009: cinque anni fa, infatti, Sorgenia “accoglieva” un finanziamento bancario di 600 milioni di euro finalizzato alla costruzione di due delle 4 centrali a ciclo combinato oggi esistenti, quella di Bertonico (nel lodigiano) e quella di Aprilia, in provincia di Latina. A concedere la linea di credito erano state Mediobanca, Banca di Credito Finanziario, Monte dei Paschi di Siena, Intesa Sanpaolo, Unicredit Mediocredito Centrale, WestLB Ag e Banca Popolare di Lodi, tutte insieme appassionatamente. La restituzione della somma avrebbe dovuto iniziare nel 2012. 

Per non fallire. Oggi, 600 milioni di euro, pari a un terzo dell’indebitamento complessivo di Sorgenia, è proprio la cifra sul tavolo delle trattative in corso tra Sorgenia e le banche, per una “ristrutturazione del debito”, ovvero di un accordo che modifichi le condizioni del prestito, prolungandone la data di scadenza, e modificando le condizioni.  

La ristrutturazione -spiega il progetto di bilancio approvato dal consiglio d’amministrazione di Cir- dovrebbe essere chiusa entro il terzo trimestre del 2014, e l’accordo dovrà poi essere “omologato” secondo quando disposto dall’articolo 182–bis della legge fallimentare.
La ristrutturazione, infatti, è un modo per garantire la continuità aziendale a fronte di una situazione di crisi, e risponde (anche) alle esigenze del creditore, che in caso di fallimento rischierebbe di perdere tutto.
Nel caso delle banche, protagoniste dei grandi accordi di ristrutturazione come quello Sorgenia, si tratterebbe della somma prestata. L’accordo alla base della ristrutturazione, per legge, dev’essere “stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti”, spiega l’articolo 182-bis, e ciò comporta “la trasformazione della volontà di una maggioranza di creditori consenzienti in un piano che vale per tutti, sulla base di un meccanismo coattivo e autoritario” spiega Massimo Ferro, Consigliere della Corte di Cassazione e coordinatore dell’Osservatorio sulle crisi d’impresa (www.osservatorio-oci.org).   
Secondo Ferro, inoltre, il legislatore “è indifferente alla storia dell’impresa, all’ambito industriale, e anche ad eventuali abusi”. Da un lato, questo garantisce un equo trattamento di fronte a situazioni di crisi, dall’altra non permette però di valutare nel merito gli eventuali errori commessi, ad esempio, da una particolare categoria di creditori, cioè le banche che hanno scelto di finanziare quel determinato imprenditore in un dato settore dell’economia. Sono, gli istituti di credito, i principali soggetti coinvolti negli accordi di ristrutturazione. Che sono sempre da preferire al fallimento, anche perché  in quest’ultimo caso i banchieri potrebbero essere indagati e sottoposti a giudizio per “concessione abusiva del credito”, per aver -cioè- prestato a un’impresa decotta. “Salvo concorso nei reati societari o fiscali dell’imprenditore”, spiega Ferro, l’accordo di ristrutturazione salva gli istituti di credito da questa possibile accusa.   

Quasi 20 miliardi.
A fine 2013, nei conti delle banche italiane si contano “crediti ristrutturati” per oltre 19,3 miliardi di euro, che rappresentano oltre il 6 per cento del totale dei crediti a rischio, definiti “deteriorati” -categoria di cui fanno parte anche le sofferenze, gli incagli e i crediti scaduti-. Sono risorse “congelate”, sottratte al ciclo del credito, a settori e imprese che potrebbero averne necessità (a fine 2013, il sistema bancario italiano è impegnato per 267 miliardi di euro nei confronti di immobiliaristi e imprese di costruzione, e solo per 207 nei confronti di tutto il comparto manifatturiero): è per questo che vale la pena guardare alle operazioni di “ristrutturazione”, la maggior parte delle quali lasciano traccia nei bilanci dei primi cinque gruppi bancari del Paese -Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, Ubi e Banco popolare-, dove le ristrutturazioni pesano per 14 miliardi di euro, quasi il 6,8% sul totale dei deteriorati.
Altreconomia ha chiesto alle prime quattro informazioni più dettagliate, non ricevendo alcuna risposta da Intesa e Mps, una risposta negativa da Ubi e informazioni dettagliate solo da parte di Unicredit. Che nel 2012 ha ristrutturato il credito di 176 controparti (appartenenti a 107 gruppi), per un importo pari a 1,7 miliardi di euro, e nel 2013 a 89 controparti (62 gruppi), per un importo pari a 900 milioni di euro. In termini di valore, le maggiori 10 operazioni realizzate nel 2013 coprono il 71% del totale.
Il dato più interessante è però quello relativo allo stock di crediti ristrutturati, che a fine 2013 somma -per Unicredit- 3 miliardi di euro. In tutto, riguardano 293 controparti: come spesso accade, però, il debito nei confronti di Unicredit è solo una quota-parte di quello ristrutturato, per la precisione il 26%, e questo significa che 11,5 miliardi di euro di crediti ristrutturati nel nostro Paese, il sessanta per cento del totale, fa riferimento a meno di trecento controparti.

Relazioni pericolose.
Il nome di tre dei “primi 5 gruppi” bancari si trova nell’elenco dei creditori con cui Cir tratta la “ristrutturazione” del debito di Sorgenia, e sarà facile incontrare anche gli altri tra i soggetti con cui alcune grandi imprese italiane trattano o dovranno trattare -entro la fine del 2014- la ristrutturazione della propria posizione. Come, ad esempio, il gruppo cartario Burgo, tra i cui azionisti ci sono Mediobanca, le assicurazioni Generali, Unicredit e la famiglia Pesenti, con Carlo -direttore generale della holding di famiglia, Italmobiliare- che è anche consigliere di Mediobanca dopo esser stato seduto per un decennio pure nel board di Unicredit.
Si chiama “capitalismo di relazione”, ed è un meccanismo che è stato oggetto di critiche anche da parte di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, che il 30 maggio scorso ha dedicato al tema un passaggio delle “Considerazioni finali” a margine dell’assemblea annuale di Bankitalia: “Spesso le grandi banche italiane, oltre a erogare credito, detengono quote del capitale delle imprese. Il legame partecipativo non deve distorcere le scelte di affidamento o ritardare l’emersione delle difficoltà dei debitori”.
Nella stessa relazione, Visco ha ricordato che “le banche dovranno ridurre la consistenza delle partite deteriorate (circa 320 miliardi di euro a fine 2013, ndr), al fine di liberare le risorse necessarie per finanziare l’economia”.

Le Bcc più solide. In un passaggio, Visco guarda invece ai rapporti con il territorio delle banche medie e piccole, parlando di “un’interpretazione fuorviante” che  “può distorcere l’erogazione del credito”. In realtà, per il sistema delle banche di credito cooperativo –identikit “perfetto” del tipo di istituto descritto da Visco- “l’ammontare dei crediti ristrutturati a fine 2013 ammonta a 480 milioni di euro, vale a dire una quota dello 0,4% del totale degli impieghi”, come spiega ad Ae Sergio Gatti, direttore generale di Federcasse (l’associazione nazionale della Bcc, 385 banche con oltre 4.450 agenzie, www.creditocooperativo.it), in un’intervista che trovate integrale su altreconomia.it. Per il sistema bancario nel suo insieme, invece, i crediti ristrutturati valgono l’1% del totale degli impieghi. Già nel 2011 -specifica Gatti- “Federcasse aveva avviato e concluso, al termine di un confronto con la Banca d’Italia, una profonda riforma dello ‘statuto tipo’ delle Bcc, che prevedeva l’introduzione volontaria di strumenti per contrastare possibili fenomeni di cattivo governo d’impresa e collegamenti poco virtuosi con il territorio”. Simili a quelle raccolte, tre anni dopo, nelle nuove “Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazioni e governo societario delle banche e dei gruppi bancari”, emanate il 6 maggio 2014 da Bankitalia. Negli ultimi 20 anni “la quota media delle Bcc sul totale degli impieghi bancari è raddoppiata, passando dal 3,4 al 7,1%”.
Per Banca Etica (www.bancaetica.it), invece, le posizioni ristrutturate nel 2013 sono 4, per un totale di 1,7 milioni di euro (pari allo 0,2% degli impieghi): “Senz’altro i nostri settori di riferimento,  le organizzazioni a movente ideale, ha buona capacità di resilienza, non arrivano al default -spiega il presidente, Ugo Biggeri-. Inoltre, la fase di selezione per noi è importante: eroghiamo il credito in base alla effettiva sostenibilità economica del progetto, e non ci limitiamo a prendere atto dell’esistenza di garanzie. Le relazioni esistono, certo, ma sotto forma di partecipazione attiva”. Un fenomeno che Bankitalia ignora. —
 

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