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Ambiente / Opinioni

Rimettere le cose a posto. Non quello di prima

© Fabian Kuhne - Unsplash

Il 2021 è l’occasione per compiere una transizione cruciale, culturale prima ancora che ecologica. Ma non possiamo lasciar decidere solo ad altri. La rubrica del prof. Paolo Pileri

Tratto da Altreconomia 233 — Gennaio 2021

La fatica di rimettere le cose a posto. Questo il titolo che darei al 2021. Il 2020 è una stanza dal disordine irriconoscibile come solo i ladri la lasciano quando, famelici, mettono tutto a soqquadro. Rimettere le cose a posto vuol dire riprendersi il calore e il protagonismo della piazza e mollare il divano del distanziamento sociale. Il 2021 dobbiamo dedicarlo a uscire, andare per il Paese e scrivere un nuovo patto sociale come fecero, meglio di noi, i partigiani su per i monti, resistendo e scrivendo la Costituzione. Covid-19 ci ha sbattuto in faccia la lista delle fragilità di questo Paese che sono, innanzitutto, culturali. È sempre sulla parola cultura che scivoliamo rovinosamente: troppo debole per sostenere il cambiamento necessario, inutilmente sufficiente per quello possibile.

Rimettere le cose a posto impegna tutti, ognuno là dove si trova, dove fa le sue cose, con le abilità che ha in mano, in testa, nel cuore. Non penso a un 2021 in cui incolliamo i cocci di un vaso che poi prenderà la forma di prima ma un 2021 in cui ripensiamo, ovvero pensiamo prima, la nuova forma del vaso-Paese. Quindi rimettere le cose a posto, ma non nello stesso posto di prima: ecco la sana fatica che non ci deve spaventare, anche se il divano dove ci han detto di stare, ci ha infiacchiti. Un piano per la ripresa dovrebbe occuparsi in primis della madre di tutte le fragilità: la cultura, l’energia più convincente per dirci come abitare la terra, il Paese.

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Sul finir del 2020, il governo ci ha proposto il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza. Un titolo altisonante come sono le promesse. Là dentro si parla di transizione ecologica. Ma si parla anche -e troppo- di affidarla alla tecnologia, alla digitalizzazione totale del Paese come scritto nelle prime linee guida. La tecnologia è roba strana: ci rende possibili alcune cose, ma anche più dipendenti, proprio come fa una protesi. Fino a che punto il riordino della stanza a soqquadro va affidata a una protesi che ci esclude e condiziona? È innegabile che sia utile e pure che non possiamo più farne a meno, ma la tecnologia è anche un rullo compressore che schiaccia tutto in una nuova palta omologante che ci disgiunge dal reale.

Ricordiamoci che salveremo una zolla di terra solo se ci chiniamo a raccoglierla; un muretto a secco se ci fermiamo a guardarlo, scoprendo la sua ricca vita ecologica. Il digitale mette distanze tra noi e il reale e ci abitua a reagire con la tecnica più che con la cultura. La transizione ecologica è cruciale per il 2021, ma deve accadere dentro di noi e non solo fuori da noi, con qualche protesi. La transizione non è merce, un pannello solare o un e-monopattino, ma è, prima, il senso profondo su cui poggiare per sempre l’abitare la terra.

Dionigi, un vecchio amico montanaro, mi raccontò che lassù erano tutti felici per l’arrivo della strada. Ma per lui la strada voleva dire che tutti se ne sarebbero scesi altrove, abbandonando la montagna. Così è stato. Il ragionamento è grezzo, ma non stupido e ci aiuta a capire che senza concettualizzare i nuovi limiti allo sviluppo e senza dotarsi di solidi argini culturali, la tecnologia potrebbe essere l’inizio di un nuovo scivolamento. Il distanziamento sociale ci ha abituato alla passività, a stare lontano dalle cose e dai loro risvolti inattesi. Oggi serve la fatica del dubbio e non la comodità del divano o la verità aumentata di una app. Con la fatica si elaborano le ragioni del cambiamento e queste diventano domande di futuro, con il divano si subiscono i cambiamenti di un futuro voluto da altri.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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