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Rifiuti d’Italia

Nel 2014, ciascun abitante del nostro Paese ha prodotto 487 chilogrammi di rifiuti urbani. La raccolta differenziata è poco oltre il 42% (doveva essere al 65% nel 2012) mentre la quantità "avviata ad incenerimento" è cresciuta del 35% in nove anni. Ecco la fotografia aggiornata dei rifiuti urbani dall’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che in un capitolo dedicato riconosce la convenienza della tariffa puntuale

Dopo tre anni di flessione, la quantità di rifiuti urbani prodotti in Italia è tornata, seppur lievemente, a crescere. Secondo il Rapporto rifiuti urbani a cura dell’ISPRA, infatti, lo scorso anno è stata (di nuovo) raggiunta quota 29,6 milioni di tonnellate, più 0,28% rispetto al 2013 -anno in cui fu registrato il dato più basso degli ultimi tredici-. E se il picco del 2010 sembra comunque distante (32,4 milioni di tonnellate), ciascun abitante del Paese ha in ogni caso portato in dote, nell’ultimo anno analizzato, qualcosa come 487,8 chilogrammi di rifiuti. Nel caso di un emiliano-romagnolo -che vive nella seconda Regione d’Italia per numero di inceneritori presenti (8 su 44)-, i chilogrammi crescono fino a 635,8, il massimo. Una parte dei rifiuti prodotti (321mila tonnellate) è stata anche esportata all’estero, principalmente in Austria, mentre alla voce “importazioni” (203mila tonnellate), ha primeggiato la “fonte” Svizzera.
 
Il professor Enzo Favoino lavora presso il centro di ricerca della Scuola Agraria del Parco di Monza. “Si tratta di un ‘rimbalzo’ che, nelle sue dimensioni contenute (e sostanzialmente nei margini delle oscillazioni statistiche), poteva anche essere attendibile -spiega a proposito della leggera crescita della produzione annua- ma la direzione è chiara, ed è quella del progressivo disaccoppiamento tra crescita economica e produzione di rifiuti, grazie a misure di prevenzione, di incentivi e di mutazione dei supporti di fruizione di contenuti”. 
 
La macroarea che ha determinato l’inversione di rotta in aumento della produzione annua di rifiuti è stata, a differenza del Centro e del Sud, il Nord Italia: più 188mila tonnellate in un anno. Quella stessa zona dove, pur in presenza della prestazione in termini di raccolta differenziata più rilevante (56,7% nel 2014), ricade la stragrande maggioranza degli impianti di incenerimento dei rifiuti del Paese -29 dei 44 esistenti al 2014-. 
 
Prendendo tra le mani un calendario, ci si rende conto come l’obiettivo della raccolta differenziata nazionale al 65% entro il 2012 (d.lgs. n. 152/2006 e l. 27 dicembre 2006, n. 296) risulti ancora, nel suo complesso,  remoto. Nel 2014, del resto, l’Italia si è fermata al 45,2%, che corrisponde all’obiettivo originariamente fissato per il 2008. È interessante confrontare questo dato con il crescente ricorso agli impianti di incenerimento di questi ultimi dieci anni, nonostante, come detto, il progressivo calo della produzione. Nel 2005, l’Italia ha prodotto 31,6 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Nove anni dopo, 29,6 milioni, con un calo di poco più del 6%. Nello stesso periodo, al contrario, il “peso” dei rifiuti inceneriti è cresciuto del 34,8%, da 3,8 milioni a 5,1 milioni di tonnellate. Anche se ciò va considerato con il sensibile decremento del ricorso alle discariche (-39%).
Favoino -che con la Scuola Agraria ha introdotto il sistema di raccolta porta a porta in Italia nel 1993- suggerisce tuttavia di esaminare i dati sulla raccolta differenziata più in dettaglio, mediante la loro disaggregazione, che testimonia la presenza di singoli Comuni, distretti e Regioni decisamente più avanzati, e che dunque possono indicare la “traiettoria” per il futuro: “Il Veneto, insieme alle Fiandre, è oggi una delle situazioni più avanzate d’Europa in materia di minimizzazione del ricorso allo smaltimento in discarica od incenerimento -spiega-. E non solo per la percentuale di differenziata (67,6% nel 2014 su scala regionale, ndr) ma anche per le strategie di contenimento del rifiuto nel suo complesso, il che  porta congiuntamente alla minimizzazione del rifiuto residuo, a livelli anche più avanzati rispetto alle Fiandre. Ne è la prova il ‘caso’ del Consorzio Contarina e i suoi 50kg/ab all’anno di rifiuto residuo su area vasta”. La disaggregazione operata consente di sfatare luoghi comuni sedimentati, come quello che riguarda il ritardo del Sud -che a livello generale è al 31,3% di raccolta differenziata-. “In Sardegna -nota Favoino scorrendo i dati- cinque province su otto sono al di sopra del 60%, in Campania diverse Province hanno livelli di RD del tutto comparabili al Nord, grazie all’estensione del porta a poirta”. Anche in Sicilia -che nel complesso è ancora al 12,5%- emergono gli ottimi risultati conseguiti da singoli Comuni, quali ad es. Zafferana Etnea (CT), Buseto Palizzolo (TP), Castelbuono (PA), che testimoniano che i risultati dipendono dal modello operativo e non dalla latitudine".
 
In un passaggio del rapporto Ispra, però, si legge che “l’incenerimento non sembra determinare un disincentivo alla raccolta differenziata, come risulta evidente per alcune regioni quali Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Campania e Sardegna”. Favoino però non fa mistero di nutrire sul punto più di una perplessità, perché “se è vero che la presenza di un’inceneritore effettivamente non impedisce l’ingresso della raccolta differenziata”, certamente “ne comprime le potenzialità”. “Penso alla Danimarca, ed alla sua arretratezza nella raccolta dell’organico, e in Italia al caso ad es. alla Lombardia, che oggi può contare su una capacità incenerimento di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti, ampiamente superiore alle necessità attuali e future, e che dopo essere stata la regione-guida per lo sviluppo della raccolta differenziata negli anni 90, si è poi sostanzialmente impigrita facendosi scavalcare (ed anche di molto) da altre regioni. Motivo per il quale a seguito della approvazione del nuovo Piano Regionale, che prevede di dare nuovo impulso per aumentare ulteriormente la raccolta differenziata, il Consiglio regionale ha adottato una risoluzione sul ‘decommissioning’, ossia spegnimento progressivo degli inceneritori esistenti. A Busto Arsizio -aggiunge- c’è stato il primo esempio di concretizzazione di tale principio: il Consorzio che gestiva il forno inceneritore ha deciso di spegnerlo per il rischio finanziario che rappresenta un tale impianto in uno scenario in cui le strategie Ue ci chiedono di massimizzare il recupero di materia. E in Friuli-Venezia Giulia si possono ad esempio confrontare i risultati di Udine, Pordenone e Gorizia con quelli di Trieste. Le prime tre, che non hanno inceneritori cui conferire rifiuti, sono tutte oltre il 60% come raccolta differenziata. Trieste, invece, nel 2014 è ancora al 30%”.

A questo proposito anche il caso di Lecco fa scuola. Prima provincia italiana a superare quota 50% nel 2002, Lecco nel 2005 era la terza in Italia per entità della raccolta, a quota 54,27%. Dopo dieci anni e un sensibile incremento della capacità d’incenerimento del forno ricadente nel Comune di Valmadrera (LC) gestito dalla società SILEA Spa (che nel 2014 ha bruciato oltre 90mila tonnellate e che si appresta ad aumentare la capacità di incenerimento per alimentare una rete di teleriscaldamento), Lecco si ritrova al 58,5%, 33esima a livello nazionale, e con 454 kg/ab all’anno di RU, staccata dalla provincia di Treviso, che non ha inceneritori da alimentare e guida la classifica all’81,9% e 360,8 kg/ab all’anno.
 
Per superare la frontiera dell’incenerimento è buona cosa leggersi uno dei capitoli più importanti del Rapporto, quello dedicato al monitoraggio e alle valutazioni economiche del sistema tariffario. “Nel corso dello studio -si legge-, ISPRA ha individuato un cospicuo numero di comuni che adottano il sistema di tariffazione puntuale, andando ad analizzare le variazioni economiche derivanti dall’adozione di tale sistema di tariffazione rispetto al metodo normalizzato”. Sono stati analizzati 1.892 comuni, il 23,48% del numero complessivo, per 22.655.926 abitanti (con una “maggiore rappresentatività delle regioni del Nord”). Di questi, 102 sono quelli che adottano il regime di tariffazione puntuale o “Pay-As- You-Throw” (paga per quel che butti): un campione di 358.630 persone. Dopo un elenco dei casi di studio -tra cui il Veneto, dove è “sensibile la diminuzione dei costi (-20,5%) che passano da 109,33 €/ab nei comuni a Tari normalizzata a 86,87 €/ab nei comuni a tariffa puntuale”- l’esito è cristallino: “risulta evidente dall’analisi condotta sui costi pro capite -scrive ISPRA-, come l’aumento del livello di raccolta differenziata nei comuni a tariffa puntuale coniugato ad una gestione virtuosa del rifiuto urbano si traduca in una diminuzione significativa dei costi a carico del cittadino”. Un riconoscimento della convenienza di scelte di questo tipo che s’accompagna ad un’altra, in netto contrasto con un articolo pubblicato su la Repubblica del 23 ottobre secondo il quale riciclare era opportuno “ma non troppo”: “all’aumentare della percentuale di raccolta differenziata -si legge nel Rapporto rifiuti urbani di Ispra-, al quale è legata una diminuzione importante della quantità di rifiuti pro capite smaltiti in discarica ed un aumento generale della percentuale di rifiuti avviati al trattamento meccanico-biologico, diminuisce significativamente il costo totale pro capite annuo”. La raccolta differenziata e la minimizzazione del rifiuto residuo convengono. 

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