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Diritti / Opinioni

La ribellione a tutti i costi delle élites e delle masse

Rileggere oggi Josè Ortega y Gasset e Antonio Gramsci può aiutarci a comprendere il presente. In una società in cui nessuno vuole essere responsabile e le istituzioni saranno, sempre e comunque, il nemico da abbattere. Anche quando le si governano. L’analisi di Alessandro Volpi

©Sasan Rashtipour on Unsplash

A volte per capire meglio il presente possono servire le analisi di autori del passato, anche quando il presente pare possedere caratteri sconosciuti. Nel 1930, il filosofo spagnolo Josè Ortega y Gasset dava alle stampe un illuminante testo intitolato “La ribellione delle masse”, che verrà tradotto in Italia solo nel 1962, in cui esprimeva tutti i propri timori per il fenomeno della Iperdemocrazia. Si trattava, a suo dire, della condizione che andava prendendo corpo in quegli anni, allorché “la massa opera direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti”. La ribellione delle masse, secondo Ortega y Gasset, consisteva così nella pretesa, vincente, di “travolgere tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato” in nome, appunto, dell’arbitrio assoluto della volontà popolare a cui non può essere opposto alcun vincolo formale e normativo, neppure quello che le stesse masse si fossero date.

“Adesso -scriveva il filosofo spagnolo- la massa ritiene d’avere il diritto di imporre e dare vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè”. Il pericolo dunque era quello del ripudio del metodo scientifico, della rimozione delle libertà individuali, della costante banalizzazione dei contenuti; in estrema sintesi della costruzione, assai rapida, di regimi democratici, dove l’elezione tramite largo consenso popolare non era affatto garanzia di democrazia e libertà. L’uso del termine “ribellione”, poi, serviva a definire lo stato d’animo delle masse che intendevano reagire ad un protratto potere delle élites, puntando non ad una rivoluzione, destinata a instaurare un nuovo modello sociale e politico, ma al ripristino di una “naturale” sovranità popolare, lesa appunto dalla politica delle “caste”; la ribellione era, in tal senso, il più forte istinto antipolitico e legittimava qualsiasi pulsione, soprattutto quelle coltivate dai luoghi comuni.

Qualche anno prima, Antonio Gramsci aveva trattato del “sovversivismo delle classi dirigenti”, riferendosi nel 1921 alla connaturata tendenza delle élites italiane a sovvertire le istituzioni, a nutrire impulsi antiparlamentari, a privare di senso qualsiasi ipotesi costituzionale. Negli anni del carcere, il pensatore sardo avrebbe descritto anche il sovversivismo delle “classi subalterne”, qualificandolo come “un odio generico, di tipo semifeudale che porta il contadino a odiare il funzionario, non lo Stato che non capisce”. In altre parole, per Gramsci, nel caso italiano, erano presenti sia il ribellismo delle élites, che traevano la propria forza in termini di consenso dalla feroce critica alle istituzioni di cui facevano parte, sia quello delle classi subalterne, delle masse per dirla con Ortega y Gasset, che aveva tratti ferocemente personalistici.

A queste due letture è utile affiancarne una terza, decisamente più recente. Nel 1994, Christopher Lasch, poco prima di morire, pubblicava il volume “La ribellione delle élites”, in cui, muovendo proprio dalla lettura di Ortega y Gasset, descriveva l’ormai sostanziale estraneità della classi dirigenti, economiche, culturali e politiche, dalla realtà nella quale vivevano e quindi la loro incapacità di comprenderla; una élite cosmopolita, formalmente molto tollerante, globalizzata e lontana da qualsiasi idea di radicamento territoriale che aveva scelto di “ribellarsi” ad ogni naturale appello alla responsabilizzazione. Forse, come accennato in apertura, per cogliere il senso della situazione attuale occorre mettere insieme le considerazioni contenute in questi tre testi che hanno in comune la capacità di mettere a fuoco la tendenza insita nelle società contemporanee alla de-responsabilizzazione, al rifiuto degli obblighi istituzionali in nome di un genericissimo, quanto acceso, interesse nazionale sia da parte dei governanti sia dei governati -per usare una vecchia espressione della scienza politica italiana- e, alla parallela, ipertrofia dei lessici personalistici. La ribellione delle masse e delle élites, il sovversivismo, sono le forme ideali per il linguaggio delle reti e dei media sociali che hanno bisogno di continui nemici, di destinatari di una ostilità profonda, e declinano la responsabilità, sempre e comunque, come la qualità di chi è colpevole. In questo schema, naturalmente, nessuno vuole essere responsabile e le istituzioni saranno, sempre e comunque, il nemico da abbattere. Anche quando le si governano.

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