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Reti alla deriva per avere più gas

Mazara del Vallo, principale porto peschereccio del Mediterraneo, è in crisi per colpa dell’eccessivo sfruttamento dei mari. E degli sconfinamenti libici Il paesaggio è spettrale. Le barche sono ferme, gli attrezzi disarmati, gli scafi divorati dalla ruggine. Occupano tutto un…

Tratto da Altreconomia 112 — Gennaio 2010

Mazara del Vallo, principale porto peschereccio del Mediterraneo, è in crisi per colpa dell’eccessivo sfruttamento dei mari. E degli sconfinamenti libici

Il paesaggio è spettrale. Le barche sono ferme, gli attrezzi disarmati, gli scafi divorati dalla ruggine. Occupano tutto un lato della banchina. “Sono bloccati da mesi”, racconta un pescatore di passaggio. “Ormai qui è finita. Si lavora in perdita”. Benvenuti a Mazara del Vallo, il “principale porto peschereccio del Mediterraneo”. Circa 350 pescherecci d’altura che fanno base qui, 4.000 pescatori impiegati, il 20 per cento del fatturato nazionale derivante dalla pesca. “Mazara la regina dei mari”, dicevano una volta i suoi abitanti, con un sorriso d’orgoglio stampato sulla faccia. Ma oggi nessuno più ride. La pesca è in crisi. Gli armatori dismettono le flotte, i pescatori si ritrovano disoccupati, i capitani vengono impiegati nel settore del trasporto mercantile.
Come si è arrivati a questo punto? Cosa ha determinato un tracollo che molti ormai definiscono strutturale? “La crisi ha diverse cause. Ma la principale è l’eccesso di sfruttamento: ci sono troppi pescherecci per un mare che non è più pescoso come una volta”, sostiene Fabio Fiorentino, capo ricercatore al locale Istituto per l’ambiente marino costiero del Cnr. “Poiché, soprattutto in certi periodi dell’anno, qui il pesce è poco, i pescherecci mazaresi sono costretti ad andare più lontano. Spesso arrivano fino a Cipro. Ma sono sette giorni di navigazione, senza pescare. Il che fa lievitare i costi e diminuire i profitti. Bisognerebbe rivedere tutto il sistema. Pescare in modo più consapevole: non svuotare il mare, ma cercare di avere con esso un rapporto più armonioso”.
Paolo Giacalone è d’accordo: il sistema va rivisto. Armatore di una piccola società proprietaria di tre motopescherecci, ha tuttavia un’altra spiegazione per la crisi della pesca. “Tutto è cominciato nel 2005, quando i libici hanno allargato in modo unilaterale le proprie acque territoriali. Normalmente le acque di uno Stato si estendono fino a 12 miglia della costa. Tripoli ha deciso che dovevano arrivare a 74 miglia. E, da allora, impedisce a noi mazaresi di andare a pescare in quel tratto di mare”. Giacalone sa di che cosa parla. Nel luglio scorso si è visto sequestrare due dei suoi tre pescherecci -il Monastir e il Tulipano- dalla guardia-costiera libica. Li hanno tenuti bloccati per tre settimane nel porto di Khoms.  Poi, racconta, “li hanno liberati solo grazie alla personale intercessione di Berlusconi”. L’armatore mazarese è volato a Roma, dove ha incontrato il presidente del Consiglio. Questi gli ha assicurato che da lì a tre giorni le sue barche sarebbero state rilasciate. Il che è puntualmente avvenuto. “Ma l’altra promessa, quella più importante, non l’ha mica mantenuta”, sottolinea Giacalone con aria piccata. Il premier aveva garantito che avrebbe parlato con il colonnello Gheddafi del problema delle acque territoriali e della crisi dei mazaresi. Invece, durante la visita a Tripoli in occasione dell’anniversario del “Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato”, il 30 agosto scorso, non ne ha fatto cenno. Così la Libia mantiene la sua linea dura annunciata dopo il rilascio delle due ultime barche: ogni peschereccio italiano sorpreso nelle acque della Jamahiriya sarà sottoposto al “sequestro delle quantità di pesce a bordo”, “sequestro di tutte le attrezzature di pesca”, “pagamento di sanzioni pecuniarie che potrebbero raggiungere il valore dello stesso peschereccio”.
“Ci sono in gioco altri interessi: il petrolio, il gas. Lì fanno affari le grandi industrie: l’Eni, la Finmeccanica. E a farne le spese siamo noi pescatori mazaresi”. Giacalone indica su una grande mappa appesa a una parete del suo ufficio le zone di pesca nel canale di Sicilia: normalmente, nel periodo autunnale, si andava a pescare il gambero rosso in un’area detta in gergo “il deserto”, che dopo la decisione di Tripoli è rientrata nelle acque territoriali libiche. “Oggi non ci si può più andare. A noi ci si è ristretto il mare. E non possiamo far altro che fermarci”. Da quando è stato rilasciato, il Monastir è tornato a Mazara e sta fermo al porto, tra le barche disarmate. Il Tulipano è andato a pescare in Egitto in seguito a un accordo concluso dal distretto della pesca (vedi intervista nella pagina successiva). E il terzo peschereccio è impegnato nella acque tra la Sicilia e la Sardegna. “Ma se l’Unione Europea sblocca i fondi per la rottamazione, io dismetto sia il Tulipano che il Monastir e tengo un solo peschereccio”, confessa Giacalone.
Al porto la parola “dismissione” è sulla bocca di tutti. Tutti aspettano la decisione dell’Unione Europea, che dovrebbe sbloccare gli incentivi per eliminare gli scafi superflui. E tutti sono d’accordo: diminuire la quantità di barche per pescare di più tutti. “Ma quello della quantità di barche non è l’unico problema: c’è anche la questione della filiera. Mazara è il principale porto peschereccio del Mediterraneo, ma non ha un mercato all’ingrosso”, sottolinea Francesco Mezzapelle, corrispondente del quotidiano La Sicilia ed esperto di questioni legate alla pesca. “Fino ad oggi, gli armatori facevano buon gioco a rivendere ad intermediari il pesce già dalle barche. Questi venivano a prenderlo direttamente al porto con i camioncini e loro potevano in qualche modo evitare i controlli. Oggi non conviene più: la concorrenza del pesce africano, cinese o latinoamericano ha ridotto i margini. Gli armatori hanno capito che l’unica loro salvezza è puntare sulla qualità. Sono quindi loro stessi a invocare più regole e più trasparenza. E la maggiore trasparenza passa anche per un mercato all’ingrosso”, aggiunge Mezzapelle. Progettato da 35 anni, il mercato ittico di Mazara è oggi in costruzione. Un edificio in muratura proprio accanto al porto a più piani. Il cartello indica fine lavori a giugno 2010. “Ma ci prenderemo sicuramente qualche mese in più”, confida l’architetto capo-cantiere Alberto Ditta.
Quella dei pescatori di Mazara è stata finora una storia di grandi profitti e scarse regole. Tradizionalmente, l’utile del pescato è così ripartito: la metà va all’armatore, che ha tutti i costi da coprire, e la metà all’equipaggio.
Di questo, un quarto va al capitano e l’altro quarto agli altri lavoratori. Ma sulle barche non c’è un listino del prezzo alla vendita. I negoziati si fanno direttamente tra armatore e intermediari. Con il risultato che spesso i pescatori si vedono decurtati dei loro già scarsi guadagni. “Noi peschiamo e quelli fanno i soldi”, si infervora Vincenzo Quinci, una vita passata a bordo dei motopescherecci nel canale di Sicilia. “Oggi si lamentano che c’è crisi. Dicono che non guadagnano abbastanza e vogliono dismettere. Ma cominciassero a mettere ordine in casa loro: noi vogliamo i listini dei prezzi a bordo. Così sappiamo quando guadagniamo mentre lavoriamo”.
I pescatori accusano gli armatori. Gli armatori se la prendono con i libici. Gli studiosi puntano il dito contro l’iper-sfruttamento. L’unica certezza è che Mazara è l’ombra di se stessa. “Io ho dovuto licenziare persone con cui lavoravo da vent’anni”, racconta  Giacalone. “Così non si può più andare avanti. L’unica soluzione è ristrutturare il settore”. Tutti sono d’accordo oggi a chiedere regole. Tutti vogliono il mercato all’ingrosso. Tutti chiedono una pesca di qualità: i pescatori di Mazara l’estate scorsa hanno deciso in modo unilaterale di praticare un mese di fermo biologico per ripopolare il mare. “Era una misura di convenienza. Senza fermo, il mare era troppo povero”, sottolinea Mezzapelle. Oggi gli armatori sono uniti. Appoggiano gli sforzi di Giovanni Tumbiolo, il presidente del distretto di Mazara (qui in basso), di rilanciare una “pesca di qualità” e sviluppare una “blue economy nel Mediterraneo”. Ma le barche sulla banchina del porto, sballottate dalle onde e divorate dalla ruggine, stanno lì a dire che una stagione è  chiusa per sempre ed è forse troppo tardi per voltare pagina.

Verso un modello più sostenibile
Parla il presidente del distretto
Giovanni Tumbiolo è presidente del distretto della pesca di Mazara del Vallo, un organismo che raccorda le associazioni di categoria legate alle attività del porto, dagli armatori ai trasformatori, dalle associazioni di pescatori ai commercianti.
Da che cosa è determinata la crisi della pesca?
Da mancanza di organizzazione. Fino ad oggi, tutti hanno pescato per sé, senza fare sistema. Così le risorse si sono impoverite e, soprattutto, si è finito per scontare la concorrenza di prodotti provenienti da altre aree, come la Cina. Noi dobbiamo puntare invece sulla qualità: fare una pesca che sia sostenibile. Dobbiamo fare in modo che il gambero rosso di Mazara -il nostro prodotto più pregiato- diventi come il prosciutto di San Daniele.
C’è chi sostiene che la crisi è determinata dall’iper-sfruttamento degli anni passati…
È vero solo in parte. La quantità di pesce è diminuita in relazione alla crescita della popolazione, all’inquinamento e al sovra-sfruttamento. Ma nessuna specie è in via d’estinzione. Detto questo, sono importanti tutte le iniziative per tutelare le risorse ittiche, come ad esempio il fermo biologico. Il fatto è che iniziative di questo tipo devono essere prese di concerto con tutti gli Stati rivieraschi. Se i pescatori di Mazara fanno il fermo e i tunisini pescano, il mare non si ripopola. Noi stiamo lavorando proprio per cambiare questo approccio.
Come?
Mediante gli accordi e la creazione di un grande distretto del Mediterraneo. Io ho incontrato i ministri della Pesca e le autorità di diversi Stati frontalieri, dalla Tunisia all’Egitto, dal Libano all’Algeria. Stiamo cercando di lavorare insieme per rilanciare i nostri prodotti. Ora ad esempio sei pescherecci di Mazara addestrano pescatori egiziani alla pesca d’altura. In cambio, pescano in quelle acque e versano la metà del pescato ai locali. È mediante accordi di questo tipo che noi possiamo fare del Mediterraneo il cuore di un nuovo modello di pesca.
E la Libia?
La Libia è un po’ più problematica, perché i libici ragionano con altri canoni. Stiamo comunque negoziando con le autorità di Tripoli perché rivedano la loro decisione sulle acque territoriali e partecipino anche loro a nostro progetto.

E la Libia si allarga il mare
È con una risoluzione del “Consiglio generale del popolo” del febbraio 2005 che la grande Jamahiriya libica ha istituito una “zona di pesca protetta” dell’estensione di 62 miglia al di là delle proprie acque territoriali. Una zona cioè dove nessuno è autorizzato a pescare, né i pescatori locali né quelli stranieri, a meno che non abbiano una particolare licenza rilasciata dalle autorità di Tripoli. La decisione, teoricamente permessa dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay, è stata presa in modo unilaterale e non, come è consuetudine soprattutto in un mare stretto come il Mediterraneo, in accordo con gli Stati rivieraschi. Questa risoluzione ha allargato le acque libiche, già oggetto di contenzioso rispetto alla loro estensione. In particolare Tripoli considera dal 1975 che le acque del Golfo della Sirte siano parte integrante del territorio libico e integra quindi nelle proprie acque territoriali l’area di 12 miglia a partire da una linea retta che unisce i due punti di entrata geografici del golfo. Aggiungendo 62 miglia, in alcuni punti le acque esclusive libiche si estendono quindi fino a quasi 100 miglia dalla costa.
Se per alcuni dietro la decisione del 2005 ci sono ragioni di “sicurezza nazionale” (le acque della Sirtica sono state teatro delle grandi manovre statunitensi negli anni 80 per rovesciare il colonnello Gheddafi), per altri i motivi sarebbero ben più prosaici. La zona in questione è infatti ricca del pregiatissimo “tonno rosso”, specie in via d’estinzione e sottoposta a quote di pesca nel Mediterraneo. A quanto ha denunciato il Wwf, riprendendo un rapporto della “Tuna ranching intelligence unit” (uno studio finanziato dai produttori di tonno rosso spagnoli), per pescare in Libia tonno rosso bisogna necessariamente passare per una società con sede a Tripoli, la Nour-Al Haiat Fishing Co. (Nafco), il cui capo è Alladin Wefati, intimo amico del secondogenito e successore designato del colonnello Seif el Islam Gheddafi. La Nafco stabilisce joint-venure con società spagnole, italiane, francesi asiatiche per pescare il tonno rosso, fornendo anche tutto l’apparato logistico. Secondo lo stesso rapporto, esisterebbero voci non confermate che molto tonno è pescato illegalmente e fuori dalle quote, per poi essere congelato in alto mare in pescherecci asiatici.

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