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Opinioni

Restiamo umani

La riscoperta della dignità dell’uomo -che secondo Calamandrei era l’essenza della vittoria della Resistenza- deve tornare a rappresentare una bussola capace di orientare l’azione di chi si propone di "resistere" e costruire un altro modello di società

Tratto da Altreconomia 154 — Novembre 2013

Il fiorentino Piero Calamandrei fu docente universitario, giurista, politico e scrittore. Lo ricordiamo per lo strenuo sostegno alla scuola pubblica, e per aver difeso Danilo Dolci al celebre processo per lo “sciopero alla rovescia” di Trappeto, nel 1956.
Soprattutto, lo ricordiamo per essere stato una delle personalità di spicco della Resistenza, e per avere in qualche modo contribuito a codificarne una “narrazione” sin dai primi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Qui oggi non ne evochiamo la figura, né vogliamo riflettere -magari con innaturale nostalgia- sul valore di quel movimento inedito che nel corso di meno di due anni cambiò la fisionomia di questo Paese, liberandolo.
Vogliamo invece prendere in prestito le parole che Calamandrei pronunciò al Teatro Lirico di Milano il 28 febbraio 1954, alla presenza di Ferruccio Parri (altra figura storica della Resistenza).
Il discorso è raccolto nel volume “Uomini e città della Resistenza” (edito da Laterza per la prima volta nel ‘55).
Calamandrei parla di quel periodo appena concluso, eppure oggi le sue parole sembrano assumere un significato molto attuale. “Cercare che cosa fu la Resistenza vuol dire indagare dentro di noi che cosa è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze; che cosa si è tramandato in noi di durevole e quotidiano da quel tempo che già par leggendario, e che cosa ci sentiamo ancora capaci di tramandare di quel tempo a coloro che verranno dopo di noi: se veramente, da quel che di nuovo accadde allora nel mondo, qualcosa si è rinnovato dentro di noi e intorno a noi, oppure se, chiuso quel periodo d’altri tempi, tutto è ritornato e ritornerà come prima, e rimarrà soltanto l’inutile rimpianto e il rammarico avvilente di non essere stati degni di quel monito, trasvolato via, occasione per sempre perduta, in quei cieli eroici”. A quale monito si riferisce Calamandrei? Dove è andata a finire la speranza? “Più che una speranza, un impegno. Chi l’ha tradito? Perché l’abbiamo tradito?”. Contro l’oppressione fascista che voleva “ridurre l’uomo a cosa”, l’antifascismo significò la resistenza della persona umana “che si rifiutava di diventare cosa, e voleva restare persona”.
“Restiamo umani”, esortava Vittorio Arrigoni dalla Palestina, prima di essere ucciso a Gaza, quasi 3 anni fa.
L’antifascismo -di ieri, di oggi- voleva che tutti gli esseri umani restassero persone, e sentiva che bastava offendere in un uomo questa dignità della persona, “perché nello stesso tempo in tutti gli altri uomini questa stessa dignità rimanesse umiliata e ferita”, scrive Calamandrei. Una preziosa compassione, parola che presuppone destini comuni, e pazienza reciproca, non sacrificio. Possiamo provare compassione solo fino a quando crediamo che la persona sofferente condivide con noi “vulnerabilità e possibilità”, ha scritto Martha Nussbaum.
Questa compassione è affondata, ancora una volta, nel mare al largo di Lampedusa. È annegata nell’ipocrisia del linguaggio, dello sdegno a comando. Nella violenza anche solo verbale: sui giornali, su internet, nelle televisioni, tra di noi. Nelle indegne parole di chi ancora dice “sì, però non possiamo accoglierli tutti”. Nel silenzio sulle motivazioni di chi parte, sull’innegabilità dei loro diritti, che esistono prima e a prescindere della loro rivendicazione. E sussistono al di sopra delle contingenze e delle convenienze “a scadenza”. Vale per i migranti, vale per i detenuti. Vale -o dovrebbe valere- per tutti, ovunque.
“Questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento di uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza”, dice Calamandrei. Che aggiunge: “Il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari (…) è stato quello di essere, più che un movimento militare, un movimento civile” e vittorioso: una vittoria “contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo”. —
 

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