Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Reportage

Repubblica Dominicana, clima di apartheid per chi ha origini haitiane

Dal 2013 cittadinanza di fatto negata a tutti i figli di stranieri residenti non ufficialmente, pur se nati nel Paese caraibico. A farne le spese la parte più vulnerabile della popolazione: quella proveniente dall’altra parte dell’isola

Tratto da Altreconomia 200 — Gennaio 2018
Mercedes Ferdini guarda verso la porta d’entrata dall’interno di casa sua nel Batey Yacot, nella periferia nord-ovest di Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, il 26 novembre 2017. (Foto di Alessandro Vecchi)

Mercedes Ferdini, detta Mercedita, ha 32 anni e 5 figli. Nata nel Batey Yacot, periferia Nord-Ovest di Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, Mercedita non ha mai conosciuto la madre ed è stata cresciuta dalla zia paterna insieme ad altri 8 figli. Mercedes ha tentato più volte di ottenere la cittadinanza dominicana, senza riuscirci. Questo perché l’ufficio anagrafico, partendo dal colore -scuro- della pelle di Mercedes, ha dedotto che fosse figlia di una haitiana. La Costituzione dice che basta un genitore dominicano per acquisire la cittadinanza, ma la pratica spesso non segue questo criterio: soprattutto se la madre è haitiana, un dominicano fatica a essere riconosciuto come tale. Di conseguenza, se Mercedes non riesce a ottenere lo status di cittadina, pur essendo nata e vissuta in Repubblica Dominicana e avendo un padre dominicano disposto a riconoscerla, non possono fare altrettanto i suoi cinque figli, dei quali il più grande ha 15 anni, la più piccola 5.

Pochi conoscono il clima di apartheid in cui vivono decine di migliaia di persone in questo angolo di Caraibi. L’ultimo rapporto annuale della Commissione Interamericana dei Diritti Umani include la Repubblica Dominicana in una “lista nera” di Paesi osservati speciali per quanto riguarda i diritti umani, per “la persistenza della problematica strutturale relazionata con la discriminazione contro persone nate in territorio dominicano con ascendenza haitiana, o percepite come tali”. Fino al 2010, la Costituzione prevedeva lo ius soli con le sole esclusioni dei figli di diplomatici e di persone “in transito”, concetto quest’ultimo spesso interpretato arbitrariamente dai funzionari della Junta Central Electoral -il corpo governativo che ha competenza sulle elezioni e l’emissione di documenti anagrafici- per mettere in dubbio il diritto alla nazionalità delle persone di ascendenza haitiana. In assenza quindi di un chiaro criterio legale, nell’emendamento costituzionale del 26 gennaio 2010 vennero aggiunte restrizioni al diritto di ius soli tra cui il fatto che i genitori del neonato dovessero essere legalmente residenti sul territorio dominicano.

A restringere ulteriormente il quadro ci pensò la sentenza 168-13 del 23 settembre 2013 emessa dalla Corte Costituzionale, che -negando la cittadinanza a una donna di 29 anni figlia di immigrati haitiani- decise di espandere quel parere a tutte le persone nella stessa condizione, retroattivamente. La Corte Costituzionale ritirava di fatto la cittadinanza -e il diritto a ottenerla– ai nati in territorio dominicano fra il 1929 e il 2007 da genitori stranieri non ufficialmente residenti. Di colpo, circa 210.000 persone, secondo una stima riconosciuta dalla UNHCR poco dopo la sentenza, tutte di ascendenza haitiana, si ritrovarono di fronte ad una prospettiva di apolidia.

La maggioranza degli immigrati haitiani -che secondo l’inchiesta nazionale sugli immigrati del 2012 (ENI-2012) erano l’87,3% della popolazione migrante- vide sottrarre ai propri figli l’accesso all’istruzione, al lavoro legale, il diritto ad avere un numero di telefono, un conto in banca, il diritto di voto e più in generale tutto ciò che rende una persona un cittadino in diritti e doveri. Mercedita è una dei tanti a non aver terminato le scuole: “Sono arrivata fino al sesto grado (circa 12 anni, ndr) perché non avevo i documenti”. Di conseguenza “sono rimasta lì, in strada, non c’era niente da fare… E così sono rimasta incinta del mio primo figlio. A 17 anni”. I figli, avuti da compagni diversi, vivono tutti con la madre, che li mantiene svolgendo qualche lavoro di pulizia. “Ho lavorato per due mesi in un ristorante. Mi trattavano molto bene, ho pianto quando me ne sono dovuta andare”. Il ristorante non poteva rischiare di tenere un lavoratore in nero.

In decenni di monitoraggio, la Corte Interamericana per i Diritti Umani ha denunciato la condotta dominicana più volte e, dopo la sentenza del 2013, sia altri Paesi dei Caraibi sia gli Stati Uniti hanno fatto lo stesso. Sotto pressione, il 23 maggio 2014 il governo ha emanato la legge 169-14, un piano di regolarizzazione che istituiva un regime speciale in cui iscrivere le persone colpite dalla “denazionalizzazione”. A questo regime però -che già con la sua sola esistenza avallava ciò che molti percepivano come un processo di segregazione- potevano fare richiesta di iscrizione solo le circa 61mila persone che già erano in possesso di un certificato di nascita, incluse nel cosiddetto Gruppo A.

Vista di una stradina nel Batey Bienvenido, presso Manoguayabo nella periferia ovest di Santo Domingo, Repubblica Dominicana, il 12 dicembre 2017. (Foto di Alessandro Vecchi)
Vista di una stradina nel Batey Bienvenido, presso Manoguayabo nella periferia ovest di Santo Domingo, Repubblica Dominicana, il 12 dicembre 2017. (Foto di Alessandro Vecchi)

Mentre chi non lo aveva mai ottenuto (le stime variano da 53.000 a 80.000 persone, fra cui Mercedes; stime che non includerebbero i figli), veniva indirizzato al registro destinato agli stranieri, a cui il piano di regolarizzazione era anche rivolto. Alle persone in questa situazione, incluse nel cosiddetto Gruppo B, che avrebbero fatto richiesta di regolarizzazione presentando prova di nascita sul territorio dominicano, il governo rilasciava un documento valido due anni. Nonostante la promessa di un processo di “naturalizzazione” alla scadenza del documento, solo 8.755 persone ne hanno fatto richiesta. E questo perché, visto che spesso ci si deve rivolgere a notai, sostenere la produzione dei documenti necessari a dimostrare di essere nati su suolo dominicano ha un costo elevato. Ma, soprattutto, le persone del Gruppo B percepiscono questa promessa come un inganno del governo: il documento che si riceve, infatti, non permette né di lavorare né di iscriversi all’università, ma semplicemente riconosce alle persone il diritto di rimanere sul territorio. Oltretutto, sul documento viene scritto “cittadinanza haitiana” benché i riceventi siano nati e abbiano trascorso tutta la loro vita in Repubblica Dominicana.

Harsson Lafortune è uno dei pochi che ha deciso di iscriversi al registro per stranieri. Ventenne e di genitori haitiani, Harrson è nato e ha sempre vissuto nel Batey 22, a Guaymate, terzo di 8 figli. Quando il padre all’inizio degli anni ‘80 si spostò in Repubblica Dominicana per lavorare nella raccolta della canna da zucchero, ottenne il permesso di lavoro. Alla nascita del figlio, si recò all’anagrafe con quell’unico documento. Ma non bastò. “A scuola partecipavo sempre alle lezioni senza certificato di nascita, e ogni volta che si faceva il mio nome, subito spuntava un problema”, racconta Harsson. Stanco di far parte degli esclusi, Harsson ha accettato di iscriversi al programma di regolarizzazione che lo ha incluso, senza che lui ne fosse pienamente cosciente, nel registro riservato agli stranieri. “Ho l’età per poter lavorare -lamenta- ma quando presento questo documento mi dicono di no, quello che mi chiedono è carta d’identità o passaporto”. Harsson spera nella naturalizzazione ma finora non c’è stato un solo caso che si sia risolto così.

I “non-cittadini” di origine haitiana vivono per la maggioranza nei cosiddetti batey, situati nelle zone agricole, anche se molti dei quali sono ormai inglobati nelle periferie metropolitane come ghetti. Qui stanno crescendo le nuove generazioni di apolidi, figli e nipoti degli ex lavoratori delle piantagioni. Di questa generazione fa parte anche Ruth Esther Collado Joseph, 20 anni, di madre haitiana e padre dominicano; è la seconda di 4 figli, di cui solo uno ha ottenuto i documenti. Ruth è riuscita a terminare gli studi, ma senza documenti non ha potuto iscriversi all’università. Ha frequentato due corsi privati di infermeria che non le richiedevano documenti, pagandoseli facendo la baby-sitter di tre bambini per 4mila pesos (circa 70 euro, ndr) al mese. “Mio fratello per necessità è andato a lavorare nei campi”, spiega. Un’alternativa per Ruth sarebbe di chiedere la cittadinanza haitiana, fare richiesta di passaporto e -presso un consolato dominicano ad Haiti, Paese in cui non è mai stata- di visto per risiedere a casa sua a La Cuaba, nelle campagne esterne alla circonvallazione di Santo Domingo. “Ma io non sono nata ad Haiti, nessuno dei miei fratelli è nato ad Haiti: abbiamo i documenti della maternità che provano che siamo nati qui. È un’ingiustizia”.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.