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Ambiente / Reportage

Kenya, il cambiamento climatico è già qui. Così il Lago Turkana sta scomparendo

Viaggio nella Rift Valley, dove il climate change attenta ai pascoli e alla vita di oltre un milione di persone

Tratto da Altreconomia 201 — Febbraio 2018
Kenya 2017, Contea di Turkana. Le donne puliscono il pesce sulle rive del Lago Turkana - © Maurizio Di Pietro

Villaggio di Kalokol, contea di Turkana, Kenya. La carcassa di un animale affiora dalla sabbia rovente. Calpestata, la sua pelle indurita dal vento ha il suono duro della siccità. Un suono sempre più insistente per il popolo di etnia Turkana che da centinaia di anni occupa questa zona desertica al confine con Etiopia, Uganda e Sud Sudan. È qui che prende avvio la sconfinata Rift Valley che ha dato i natali al genere umano e sempre qui, sulle sponde del lago Turkana, sono stati effettuati alcuni tra i più importanti ritrovamenti fossili. Eppure, proprio dove ha mosso i suoi primi passi, il genere umano potrebbe subire una delle sue sconfitte più cocenti in materia di clima e sostenibilità ambientale.

Dopo la firma del Nicaragua, gli accordi di Parigi sul clima del 2015 sono stati sposati da tutti i Paesi del mondo ad esclusione di Siria e Stati Uniti (nonostante il presidente Trump, con una recente dichiarazione, abbia lasciato aperta la porta a un loro possibile reinserimento). I principali obiettivi dell’accordo -fissati essenzialmente sulla limitazione dell’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 gradi centigradi- restano però lontani. Secondo il bollettino annuale sui gas serra dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), la concentrazione di CO2 nel 2016 ha raggiunto livelli mai osservati sul Pianeta da 3-5 milioni di anni, epoca in cui il livello dei mari era di 10, fino a 20 metri più alto.

“Prima avevamo pioggia, il bestiame era sano e produceva latte. Poi il nostro mondo si è fermato. Non c’è stata più erba, le bestie sono state spazzate via” – (Lorwa, pastore)

Confinato nell’estremo Nord-Ovest del Kenya, quello dei Turkana è sempre stato un popolo di pastori. L’emarginazione storica della regione e la mancanza di infrastrutture, unite a una lunga storia di malnutrizione cronica, lo hanno sempre reso particolarmente vulnerabile a qualsiasi cambiamento. Negli ultimi decenni, i dati del governo keniota mostrano una chiara tendenza all’aumento delle temperature medie nell’intero Paese e nella contea di Turkana. Mentre si stima che le temperature medie globali siano aumentate di 0,8 °C nel secolo scorso, nella contea di Turkana le temperature minime e massime dell’aria sono aumentate tra 2 e 3 °C tra il 1967 e 2012. Anche le precipitazioni piovose sono cambiate: la lunga stagione delle piogge è diventata più breve e più secca e la breve stagione delle piogge è diventata più lunga e più umida, mentre le precipitazioni annuali complessive rimangono a livelli bassi. Per intere settimane si vive a oltre 45 gradi e può non piovere anche per tre o quattro mesi.

mappaturkana

Quella di Lorwa, donna-pastore Turkana, è una delle voci raccolte nel 2015 dall’organizzazione Human Rights Watch: “Prima avevamo pioggia, il bestiame era sano e produceva latte. Poi la pioggia ha smesso di arrivare e il nostro mondo si è fermato. Gli animali hanno smesso di produrre latte, non c’è stata più erba, le bestie sono state spazzate via. Ora non ci preoccupiamo nemmeno più per il bestiame”. I pastori come lei trascorrono sempre più tempo nelle loro capanne circolari di paglia e sempre meno al pascolo. Quando si allontanano insieme ai loro animali sanno di correre il pericolo di imbattersi in una delle bande armate che hanno reso quest’area una delle più pericolose del Paese. Si lotta per le terre, per i pochi pascoli verdi rimasti, ma anche per qualcosa di ancora più succulento. Dopo che nel 2012 sono stati scoperti alcuni giacimenti petroliferi nella zona di Lodwar, la capitale della contea, è iniziata la corsa ai lotti di terreno. Interi ettari sono stati espropriati con la forza, sottratti al pascolo di bestiame e rivenduti.

Il villaggio di Kambisafi vicino al lago di Turkana. Molti uomini lasciano il villaggio per andare a pescare all’isola centrale nel lago Turkana. Gli anziani del villaggio aspettano il loro ritorno - © Maurizio Di Pietro
Il villaggio di Kambisafi vicino al lago di Turkana. Molti uomini lasciano il villaggio per andare a pescare all’isola centrale nel lago Turkana. Gli anziani del villaggio aspettano il loro ritorno – © Maurizio Di Pietro

Per una popolazione in aumento (da 855.393 persone nel 2009 a 1.256.152 persone nel 2015) questa carenza di risorse sta diventando insostenibile. I Turkana hanno dovuto cercare alternative: un tempo solo pochi di loro si dedicavano alla pesca (i pescatori erano considerati poveri perché persone senza bestiame) mentre ora sempre più famiglie si stanno spostando dall’interno verso le coste del lago Turkana, una striscia blu di 257 chilometri che corre dall’estremo Sud dell’Etiopia fino al cuore del Kenya. È il più grande lago permanente in luogo desertico ed è anche il più grande lago alcalino del mondo; privo di emissari, il suo è un bacino chiuso di acqua calda e leggermente salata. Nel 2010 uno studio della Banca di Sviluppo Africana riportava il numero di 8.160 pescatori ufficialmente attivi nel Turkana, sottolineando come il numero fosse in netta ascesa. Questo tipo di adattamento al cambiamento climatico è stato definito dagli esperti “adattamento spontaneo”, ossia privo di qualunque progetto da parte del governo o di organizzazioni non governative (pur presenti nella zona con programmi di sviluppo e sostegno alimentare).

Oggi la pesca rappresenta l’unica valida alternativa di sopravvivenza per più di un terzo dei Turkana: sulla costa occidentale, tra Kalokol e Todonyang, le giornate sono scandite dai ritmi del lago. Ai bambini tocca immergersi nell’acqua bassa per gettare le reti (la loro manodopera è essenziale, anche se per molti significa rinunciare a un’istruzione); gli adulti invece si allontanano a bordo delle barche di legno a motore (ngatedie). Alcuni di loro raggiungono l’isola del Nord, di fronte al villaggio di Nariokotome. Qui le acque sono più pescose ma occorre pagare una tassa di accesso: per ammortizzare la spesa molti scelgono di restare sull’isola anche per diversi mesi facendo vita comune.

1,25 milioni, gli abitanti della contea di Turkana gravemente minacciata dal climate change

Soltanto i grandi pesci (nile perch) vengono venduti freschi, tutti gli altri pesci più piccoli (tilapia) vengono esposti al sole e al vento e fatti essiccare. Al centro di smistamento di Kalokol non ci sono nemmeno le bilance, per cui ai pescatori vengono riconosciuti da 1 a 3 scellini per pesce a seconda delle dimensioni. Gli operai ne imballano pacchi da 25mila e li caricano sui camion diretti prevalentemente nella Repubblica Democratica del Congo, dove arriveranno dopo circa un mese di viaggio. Il prezzo finale di un pesce del Turkana essiccato sarà di circa 5 scellini, ragione per cui i rivenditori sono tra i pochi qui ad aver accumulato qualche soldo in più, puntualmente speso in tabacco e alcol, la sera, nei bar di Kalokol.

A Nariokotome, i pescatori vendono pesci sulla spiaggia. Soltanto i grandi pesci (nile perch) vengono venduti freschi, tutti gli altri pesci (Tilapia) vengono seccati - © Maurizio Di Pietro
A Nariokotome, i pescatori vendono pesci sulla spiaggia. Soltanto i grandi pesci (nile perch) vengono venduti freschi, tutti gli altri pesci (Tilapia) vengono seccati – © Maurizio Di Pietro

Ma una sirena d’allarme sta suonando. Il fiume Omo nasce sull’altopiano etiopico a 2.500 metri di altezza e sfocia nel lago Turkana dopo 760 chilometri, rifornendolo di acqua dolce per il 90% del totale. Per diversificare e sviluppare la sua economia, il governo etiope ha deciso di promuovere un piano aggressivo di produzione di energia idroelettrica, da tempo vista come una delle poche risorse sfruttabili del Paese: lungo il corso dell’Omo sono state perciò costruite tre dighe per un investimento complessivo di circa 5 miliardi di dollari. L’ultima, la Gilbel Gibe III -di progettazione e realizzazione dell’italiana Salini-Impregilo-, è stata inaugurata nel dicembre 2016 ed è collegata alla più grande centrale idroelettrica d’Africa. Sorge 300 chilometri a Nord del confine tra Etiopia e Kenya e ha già fortemente stravolto gli equilibri dell’intera regione. La diga infatti ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo (da cui 100mila indigeni etiopi dipendono per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi) per convogliare quasi il 50% dell’acqua verso i 150mila ettari che l’Ethiopian Sugar Corporation ha trasformato in piantagioni intensive di canna da zucchero. Ma il peggio succede a valle, dove il minor afflusso di acqua nel Turkana (aggravato dall’aumento dell’evaporazione) ha ridotto di diversi metri il livello dell’acqua.

“Il Turkana rischia di trasformarsi nell’Aral africano. Il lago si sta asciugando, si è abbassato già di due metri. […] I danni per la pesca sarebbero incalcolabili” – (Sean Avery)

Sean Avery, specialista in idrologia e risorse idriche, è stato uno dei primi esperti a rendersi conto delle conseguenze catastrofiche che le dighe etiopi avrebbero potuto avere sulla zona. Già nel 2013, con il suo studio “What future for Lake Turkana?” pubblicato dal Centro di Studi Africani dell’Università di Oxford, spiegava: “Nel Turkana la presenza di pesce tende ad essere maggiore durante i periodi di piena. Le inondazioni diluiscono l’acqua del lago e abbassano i livelli di salinità, oltre a rifornire il lago di quei sedimenti che, riducendo la visibilità, obbligano il pesce a spostarsi sulla superficie del lago e vicino alle rive, a tutto vantaggio dei pescatori”. Appena due anni dopo, le sue dichiarazioni rilasciate a Human Rights Watch erano funeste: “Il Turkana rischia di trasformarsi nell’Aral africano. Il lago si sta asciugando, si è abbassato già di due metri e con la messa a servizio della diga Gibe III potrebbe abbassarsi di oltre 20 metri (la sua profondità media è di circa 30). In definitiva, nel prossimo futuro potrebbe ridursi a due piccoli laghi, quello settentrionale alimentato dall’Omo e quello meridionale dai più piccoli Turkwell e Kerio. I danni per la pesca sarebbero incalcolabili”. Ebunu Lobuin fa parte della comunità di pescatori Turkana ed è spaventato da ciò che sta accadendo sotto i suoi occhi: “Ogni mattina mi sveglio e vado a pescare. Solo così posso sperare di trovare del cibo per nutrire i miei figli. Il lago è la mia vita. Se dovesse prosciugarsi non rimarrebbe più niente. Come potremo pescare se non ci sarà più acqua? Le reti diventeranno oggetti inutili”.

Nella contea di Turkana la temperatura dell’aria è aumentata di circa 3 gradi tra il 1967 e oggi, la lunga stagione delle piogge è diventata più breve e asciutta. Le capre cercano qualcosa da mangiare sulla spiaggia a Kalokol, dove qualche anno fa c’era il lago - © Maurizio Di Pietro
Nella contea di Turkana la temperatura dell’aria è aumentata di circa 3 gradi tra il 1967 e oggi, la lunga stagione delle piogge è diventata più breve e asciutta. Le capre cercano qualcosa da mangiare sulla spiaggia a Kalokol, dove qualche anno fa c’era il lago – © Maurizio Di Pietro

Le istituzioni sono in silenzio. Nei primi anni duemila la Banca Mondiale incoraggiò l’Etiopia a sfruttare le abbondanti risorse idriche del Paese per favorire l’agricoltura nelle sue pianure semi-aride. In un concept paper pubblicato nel 2004, la Banca giustificava gli impatti sullo sviluppo del lago Turkana sulla base del fatto che “in quella zona non c’è uno sfruttamento significativo delle acque” e che “il governo del Kenya potrà trarre beneficio dai progetti dell’Etiopia”. Il documento tuttavia sottolineava la necessità di ricerche più approfondite sui problemi sociali che sarebbero potuti sorgere a seguito di spostamenti di popolazione. Spostamenti che l’associazione americana International Rivers aveva previsto in un suo studio del 2013: “Una riduzione di 20 metri nel livello dell’acqua sposterà l’estremità settentrionale del lago fino a 40 chilometri verso Sud, creando un ponte terrestre interamente all’interno del Kenya. Significherebbe che i Daasanach (‘il popolo del delta’), la maggior parte dei quali è ufficialmente etiope, si troverà costretta a seguire il lago mentre si allontana in pieno territorio keniota; ciò potrebbe scatenare tensioni etniche e territoriali”. Previsioni come questa non sono state ascoltate né dal governo etiope, le cui analisi di impatto ambientale e sociale si sono rivelate quanto meno sottostimate, né da quello keniota. “Si sono completamente dimenticati di noi”, dicono alcuni pescatori del golfo di Ferguson, non lontano da Kalokol. “Sanno benissimo che non sappiamo dove andare. Non c’è più tempo ormai, fra poco qui potrebbe non rimanere più nulla”.

5 miliardi di dollari circa, l’investimento complessivo per la costruzione di tre dighe lungo il corso del fiume Omo, che nasce in Etiopia

Scarse le azioni legali avviate in questi anni: nel marzo 2016, Survival International presentò un’istanza all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) contro Salini-Impregilo per non aver richiesto il consenso della popolazione locale prima di avviare i lavori di costruzione della Gibe III. Non solo l’istanza è rimasta senza conseguenze ma il colosso delle costruzioni è al lavoro su una quarta diga (Gibe IV) e progetta già la quinta (Gibe V), al termine della quale l’Etiopia avrà più che triplicato la propria produzione di energia elettrica e diventerà uno dei principali esportatori africani.

Dalle parti di Kalokol, intanto, i pescatori dormono in spiaggia, sotto ai banchi del pesce messo a essiccare. Ai primi chiarori dell’alba si dirigono con le reti verso l’acqua, temendo di dover fare ogni giorno un passo in più per raggiungerla.

Questo servizio è stato realizzato in collaborazione con “Witness Journal” (witnessjournal.com), rivista e associazione che promuove la cultura fotografica. Gli scatti di Maurizio Di Pietro fanno parte dell’opera “Turkana’s Resilience”, premiata alla seconda edizione del festival “Closer – Dentro il reportage” dal 2 al 4 febbraio a Bologna

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