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Altre Economie / Reportage

La resistenza sin patrón delle imprese recuperate in Argentina

L’interno della pizzeria recuperata Mi Tío, nel quartiere San Telmo di Buenos Aires. La proprietà aveva deciso di chiudere per sempre la serranda del locale il 29 marzo del 2017, ma i lavoratori ruppero il lucchetto per avviare un’esperienza di autogestione - © Irupé Tentorio

Nel Paese sudamericano sono state censite 384 attività gestite dai lavoratori. A partire dal default del 2001, hanno assunto 15.525 lavoratori. La prima esperienza fu l’Hotel Bauen, che dopo oltre quindici anni occupa cento persone

Tratto da Altreconomia 221 — Dicembre 2019

“Sembrava una normale giornata di lavoro ma quando siamo arrivati in pizzeria era tutto chiuso e i proprietari avevano cambiato la serratura della porta”. Adrian “El Chino” Fernandez non prende fiato mentre ricorda una mattina di quasi tre anni fa, il 29 marzo 2017, quando ha trovato abbassata la serranda della pizzeria Mi Tío, nel quartiere San Telmo di Buenos Aires, in cui era impiegato da quattordici anni. Indossa una maglietta blu e tiene in mano il libretto per le ordinazioni mentre, al bancone, si prepara l’impasto per le empanadas fritte. “Eravamo consapevoli della crisi che ci aveva colpito e sapevamo che nell’aria c’era la possibilità di essere licenziati. Da mesi il patrón pagava gli stipendi in ritardo e non era arrivata la tredicesima dell’ultimo anno. Non ci garantivano più le spese mediche. C’erano problemi anche con i fornitori. Non ci saremmo aspettati, però, che la decisione di terminare le attività fosse presa senza consultare i dipendenti -racconta-. Non ci hanno fatto parlare nemmeno con il manager. Ci stavano lasciando in mezzo a una strada senza ascoltare le nostre richieste. Abbiamo deciso di rompere il lucchetto ed entrare. Da quel momento non ce ne siamo più andati”. Mi Tío, all’angolo tra Avenida Defensa e Avenida Estados Unidos nel centro della capitale, oggi è una cooperativa di lavoratori che ha avviato un’esperienza di autogestione per fronteggiare il rischio chiusura.

Quello della fábrica cerrada fábrica recuperada è un fenomeno economico, e al contempo sociale e politico, che caratterizza l’Argentina post crollo finanziario del 2001. Secondo i dati resi pubblici dal Programa Facultad Abierta della Facoltà di Filosofia e lettere dell’Università di Buenos Aires, nel Paese si contano 384 imprese recuperate in cui sono assunti 15.525 lavoratori. Una delle prime è stata la Textiles Pigüé, che produce tessuti e calzature a Saavedra, nella provincia della capitale. Nel 2004, dopo lo stop delle attività deciso dai proprietari, gli operai hanno riaperto i cancelli e fondato la cooperativa. Anche se le diverse esperienze sono diverse tra loro, è possibile rintracciare alcuni elementi comuni dietro la loro genesi: i lavoratori non ricevono da mesi uno stipendio, nonostante i proprietari garantiscano che sarà retribuito dopo la crisi. In tale contesto, inizia la fase dell’occupazione per ottenere la sospensione del processo fallimentare e impedire che la proprietà saccheggi i macchinari.

“Eravamo consapevoli della crisi. Eppure non ci saremmo mai aspettati che la decisione di terminare l’attività fosse presa senza consultarci” – Adrian Fernandez

È capitato anche nel caso di Mi Tío: “Dormivamo in pizzeria per impedire che ci cacciassero. Ho tre figli e dovevo spiegare loro perché tornavo a casa dopo 12 ore fuori” continua Fernandez. “I primi giorni non avevamo le materie prime per cucinare. C’erano solo un chilo di farina, una mozzarella e tre birre nel frigo. Abbiamo fatto una colletta tra di noi per comprare quello che serviva”, spiega. “Non ci saremmo mai aspettati di vedere una partecipazione così forte. Quando si è venuto a sapere che potevamo rimanere senza lavoro, il quartiere si è mobilitato. Non sono venuti solo i clienti abituali, ma anche chi vive nella zona e conosce Mi Tío, un luogo storico per San Telmo, dove è stata inaugurata nel 1974”, aggiunge. “Gli amici hanno organizzato collette e ci hanno sostenuto come potevano”. Dietro i tavoli in legno scuro che sta allestendo, c’è uno specchio ricoperto da biglietti di carta: sono disegni e messaggi scritti a mano da chi ha voluto dimostrare il proprio appoggio alla pizzeria sin patrón. Non lasciano uno spazio vuoto, coprono tutta la superficie della parete.

“Quando è iniziata l’occupazione, abbiamo ideato la parola d’ordine: ‘No Nos Vamos’, noi non ce ne andiamo. Un passaparola usato per dare visibilità alla nostra esperienza e lanciare anche una campagna sui social”, ricorda. “Poi è venuta la decisione di fondare una cooperativa. Ci è sembrato un passaggio necessario per regolarizzare la nostra attività. Abbiamo sperimentato una forma di partecipazione alle decisioni che hanno reso questo luogo non solo un posto in cui si vende ma dove si creano relazioni. Con un’impresa privata, non sarebbe stato possibile”, commenta Fernandez. Prima faceva l’aiuto cuoco, adesso gestisce la contabilità. “Ora diamo lavoro a nove persone. Per l’anno prossimo il nostro obiettivo è ottenere una maggiore stabilità economica. Se penso a tutte le piccole attività che hanno chiuso, mi sento fortunato. Non è stato facile ma ci siamo riusciti. Non riuscirei a lavorare in nessun altro posto”, conclude.

Sempre stando ai dati di Facultad Abierta, la maggior parte delle fabbriche recuperate, il 47%, si trova nell’Area metropolitana di Buenos Aires. Come l’Hotel Bauen, un edificio di venti piani in Callao 360, nel centro della capitale. L’albergo di lusso, con più di duecento stanze, è stato inaugurato in occasione dei mondiali di calcio del 1978. Chiuso il 28 dicembre 2001, nel mezzo di una delle più gravi crisi economiche che ha colpito l’Argentina, è diventato una cooperativa nel marzo 2003. Grazie all’aiuto del Movimento Nacional de Empresas Recuperadas (MNER), i dipendenti sono rientrati nell’edificio: “Ora siamo in cento a lavorare”, sottolinea Sebastian Espinoza. Ha quarantaquattro anni e da undici nell’hotel si occupa della sicurezza. “Siamo un esempio di economia popolare. Una forte alternativa alle imprese private perché una cooperativa è un luogo dove tutte le decisioni si prendono insieme e non ci sono vertici”, aggiunge Espinoza.

Lo ricorda anche un quadro appeso a un muro della hall: ritrae l’assemblea dei soci, l’organo che, ogni quattro anni, elegge il consiglio di amministrazione. “Gli anni del governo di Mauricio Macri sono stati molto difficili a causa dell’aumento delle imposte e del costo dei servizi”, spiega. Sotto l’ex presidente di centrodestra, eletto nel 2015 e sconfitto dal peronista Alberto Fernandez alle elezioni tenutesi il 27 ottobre 2019, il gas è aumentato del 1.013 per cento e l’elettricità del 1.615 per cento. Nello stesso periodo, stando all’Università di Buenos Aires, sono state recuperate 37 imprese per un totale di 1.240 posti di lavoro. “Non ci siamo mai sentiti appoggiati da Macri e ora abbiamo ricevuto un avviso di sfratto. Ma continuiamo a lavorare per non abbassare le serrande un’altra volta. Speriamo che la situazione migliori con il nuovo presidente”, il cui mandato inizia il 10 dicembre 2019.

Tiempo Argentino, il primo caso di un giornale nazionale recuperato, occupa un palazzo nel quartiere porteño di San Telmo. Al piano terra c’è la redazione, una grande stanza divisa per sezioni: i tavoli dei correttori di bozze, poi società e spettacoli, politica e sport. Al secondo piano, la sala riunioni, uno spazio aperto che consente a tutti di sedersi e partecipare alle assemblee della cooperativa. “La storia del recupero di Tiempo Argentino inizia nel dicembre 2015, quando i proprietari del Grupo 23, Matías Garfunkel e Sergio Spolsky, hanno smesso di pagare i salari. Abbiamo continuato a pubblicare il giornale, che era un quotidiano di carta, fino al mese di febbraio, quando gli imprenditori non hanno più pagato nemmeno la stampa”, racconta Martin Piqué, che firma gli articoli di politica. “Da quel momento sono iniziate le nostre mobilitazioni, prima con manifestazioni davanti al ministero del Lavoro e quindi di fronte agli uffici del Grupo 23. All’inizio il nostro obiettivo era che fossero garantiti gli stipendi degli ultimi mesi, in particolare a chi di noi aveva una famiglia e figli -spiega-. L’idea di continuare a fare il giornale è venuta dopo”.

“Quando stavamo occupando la vecchia redazione una notte siamo stati attaccati da una banda. Era un’azione intimidatoria” – Sebastian Espinoza

Il 24 marzo 2016, il Giorno della memoria per le vittime della dittatura, Tiempo Argentino pubblica un’edizione speciale di carta. Le copie sono distribuite per strada a Buenos Aires e finiscono in sole cinque ore. “Per noi, è stato uno dei momenti più importanti nella nostra nuova vita. La gente pagava più del prezzo dovuto e ci chiedeva quando saremmo usciti di nuovo. Così nel mese di aprile abbiamo deciso di fondare la cooperativa ‘Por mas Tiempo’, e ora siamo arrivati al terzo anniversario”, spiega. “Certo, non sono mancati momenti difficili e di tensione. Quando stavamo occupando la vecchia redazione nel quartiere Palermo, che condividevamo con Radio America, dormivamo a rotazione per impedire che ci fossero portati via i computer e le attrezzature, una notte siamo stati attaccati da una banda. Era un’azione intimidatoria”, ricorda. Tiempo Argentino è un quotidiano online che pubblica la domenica un’edizione cartacea, che arriva a vendere circa 15mila copie nelle edicole, e dà lavoro a 84 persone. Ha 3mila abbonati digitali, la principale entrata, e mille al cartaceo.

Due redattori di Tiempo Argentino, quotidiano online e settimanale da 15mila copie di tiratura. È il primo giornale nazionale recuperato. Dà lavoro a 84 persone – © Irupé Tentorio

“In una cooperativa si condividono le responsabilità. Tutti ci siamo reinventati. Chi seguiva sport, fa anche i video. Chi si occupa di cultura segue anche l’amministrazione”, spiega Javier Borelli, presidente di “Por mas tiempo” e giornalista che si occupa di società. In redazione, che chiude ogni giorno alle 22, i turni si dividono tra chi segue le notizie principali della giornata e chi scrive articoli più lunghi e lenti, per cui si ha a disposizione più tempo. “Crediamo che la chiave per un giornalismo indipendente di qualità sia l’approfondimento, anche per un media online”, aggiunge. Oggi Tiempo Argentino punta sul digitale, consapevole delle difficoltà della carta in un Paese dove l’ultima crisi ha fatto perdere più di 4mila posti di lavoro nell’editoria. “Stiamo immaginando di creare nuovi format per chi vuole abbonarsi ma non può permetterselo, sconti per chi è studente o disoccupato. Gli articoli del sito (tiempoar.com.ar) sono gratuiti e non c’è limite al numero di pezzi che si possono leggere. Pensiamo che tutti debbano avere la possibilità di ricevere un’informazione di qualità. Che, soprattutto in tempi di crisi, è fondamentale per una democrazia”.


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Il 7 novembre è uscito in libreria “Quando la Fiat parlava argentino”, volume di Camillo Robertini pubblicato nella collana dei “Quaderni di Storia”

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