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Diritti / Approfondimento

I 30 anni del Regolamento di Dublino. Una ferita nel diritto d’asilo in Europa

Erede di una convenzione del 1990, il regolamento europeo che avrebbe dovuto armonizzare le politiche degli Stati in tema di protezione internazionale mostra la sua inefficacia. Con pesanti ricadute sulle vite delle persone

Tratto da Altreconomia 224 — Marzo 2020
Un gruppo di famiglie di rifugiati, scortati dalla polizia della Slovenia, cammina verso il confine con l’Austria. © istockphoto.com/ vichinterlang

Il fallimento delle politiche europee sul diritto d’asilo sta in una domanda che l’avvocata Caterina Bove, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, si è sentita fare spesso dai propri assistiti, richiedenti asilo pakistani, afghani, somali, iracheni: “Quindi loro mi rivogliono indietro?”. “Loro” dovrebbero essere quei Paesi europei che l’Italia (per via di una Unità insediata presso il ministero dell’Interno) ha ritenuto competenti al posto suo per l’esame della domanda di protezione internazionale in forza di una Convenzione stipulata trent’anni fa. “È difficile spiegargli che invece no, Svezia, Bulgaria, Germania, Finlandia o Austria non li rivogliono ‘indietro’ per proteggerli ma semplicemente perché stanno applicando una regola assurda”. Ovvero il Regolamento di Dublino, l’erede -dopo diverse modifiche, l’ultima nel 2013- dell’omonima Convenzione risalente alla metà di giugno del 1990. All’epoca non esisteva l’Unione che conosciamo oggi con le sue direttive, i suoi regolamenti, la sua Carta dei diritti fondamentali, il suo Trattato sul funzionamento che all’articolo 80 ha stabilito il principio guida di “solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”.

Eppure la Convenzione di Dublino avrebbe dovuto in ogni caso “armonizzare le politiche in materia di asilo”. Di fatto, costringere Paesi in ritardo a dotarsi di un sistema degno di protezione e asilo, fissare criteri di competenza che responsabilizzassero gli Stati alle “frontiere” e scongiurare i temuti “movimenti secondari” in quella che di lì a poco sarebbe divenuta un’area di libera circolazione delle persone (la Convenzione di Schengen è stata infatti firmata il 19 giugno 1990, quattro giorni dopo “Dublino”). “Quell’obiettivo è miseramente fallito”, spiega Chiara Favilli, professoressa associata di Diritto dell’Unione europea all’Università di Firenze. “L’iniziale accordo internazionale tra 12 Paesi è stato incorporato e trasformato in regolamento dell’Ue senza che fosse modificato il contenuto dei suoi criteri. E questo è paradossale oltreché tecnicamente scorretto. A differenza del 1990, infatti, si dovrebbero perseguire le finalità dell’Unione e non invece la sommatoria delle volontà dei singoli Stati. Non aver compreso tutto questo ha portato a far incancrenire una ferita che già c’era e ha determinato tensioni fortissime in terra e anche in mare, come dimostrano gli ostacoli posti negli anni alle operazioni di ricerca e soccorso per impedire o ritardare l’ingresso delle persone”.

“A differenza del 1990 si dovrebbero perseguire le finalità dell’Unione e non la sommatoria delle volontà dei singoli Stati. Non averlo compreso ha portato a far incancrenire una ferita che già c’era” – Chiara Favilli

Il principio per il quale nell’Ue debba esistere almeno uno Stato competente a esaminare una domanda di asilo è “logico e ragionevole”, precisa Favilli. “Ciò che ha portato al fallimento è stata l’incapacità di modificare criteri obsoleti e superati. Ne cito due: il primo è quello per cui di norma lo Stato competente è quello dove è avvenuto il primo ingresso irregolare, residuale nel Regolamento (articolo 13) ma di fatto largamente applicato dagli Stati che invece dovrebbero agire secondo uno spirito solidale. L’altro riguarda i legami famigliari: il concetto stesso di famiglia è ristretto al grado del coniuge o del figlio minore”.

Quella dei “dublinanti”, coloro cioè che finiscono nelle maglie del Regolamento, è una vita sospesa. “Le persone coinvolte nella ‘procedura’ che ho incontrato sviluppano uno ‘stress da procedimento’ che ha pesanti ricadute sulla loro esistenza, difficilmente intraprendono percorsi di integrazione -continua Bove-. Aspettano di sapere dove finiranno in un limbo di paura e di mancanza di informazioni”. L’ombra che si staglia è quella di una macchina burocratica enorme -300mila le richieste di trasferimento avviate dai Paesi dell’Ue solo nel 2018- che annaspa. È il caso dell’Italia: nei primi nove mesi del 2019 a fronte di circa 33.500 richieste provenienti da altri Paesi Ue al nostro affinché si “riprendesse” in carico altrettante persone, ne sono state trasferite 4.458. Tra le ragioni dei mancati “rinvii” c’è anche la carenza sistemica della tutela in Italia dopo i “decreti sicurezza”, come ha stabilito a gennaio il Tribunale amministrativo federale svizzero accogliendo il ricorso di una donna nigeriana. Per quanto riguarda invece le 2.990 richieste avanzate dall’Italia ad altri membri Ue, quelle concluse sono state 257. “Il sistema non funziona -prosegue Bove- e gli Stati lo sanno. Ciò nonostante avviano comunque la procedura, ricostruendo le tappe del richiedente con il database europeo delle impronte digitali Eurodac”. “Se veramente i richiedenti restassero nei Paesi di primo ingresso -spiega Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi- Italia, Malta e Bulgaria esploderebbero. Al netto della situazione fuori controllo della Grecia, gli effetti negativi di Dublino sono paradossalmente attenuati dal fatto che saggiamente le persone si spostano (nel terzo trimestre 2019 Germania e Francia assorbivano infatti il 40% delle domande di asilo nell’Ue, ndr)”. Anna Brambilla, avvocata e anche lei socia di Asgi, ha trattato diversi casi di “dublinanti” vincendo contro il Viminale.

È prassi infatti che le autorità italiane non forniscano alcuna “garanzia informativa” al richiedente “dublinante” in merito alla procedura avviata, diritto previsto dal Regolamento. O non considerino il fatto che una domanda di asilo presentata dopo tre mesi di assenza dall’Ue del richiedente debba essere ritenuta “nuova”. Già questo ha comportato in più occasioni la dichiarazione di illegittimità dei provvedimenti dell’“Unità Dublino” del ministero dell’Interno. Non solo.

“Le questioni giuridiche centrali dei ricorsi sono due”, spiega Brambilla. “La prima attiene alle condizioni dell’accoglienza del Paese europeo in cui l’Italia vorrebbe trasferire la persona (e viceversa, come visto nel caso della Svizzera, ndr). È l’esempio della pessima situazione in Bulgaria e su questo le decisioni dei tribunali non sono poche. Più sparute, invece, quelle relative al ‘doppio respingimento’”. È il caso di M., nato in Pakistan, che nel 2018 ha fatto domanda di protezione in Italia come altre 49mila persone. Per il Viminale dovrebbe “tornare” in Germania anche se rischia l’espulsione e il rimpatrio in una regione del Paese dove la sua vita è a rischio. Per le autorità italiane un mancato trasferimento incrinerebbe la “fiducia reciproca” tra due Paesi dell’Ue. Al contrario, però, da Roma a Firenze, i tribunali hanno posto in rilievo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea secondo la quale gli Stati membri sono sempre “vincolati” al rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e, come nel caso di specie, anche all’articolo 4 che vieta la tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti. È questa responsabilità che ha fatto scattare le “clausole discrezionali” del Regolamento (articolo 17) e fatto assumere all’Italia la competenza dell’esame. Il problema è alla radice, continua Schiavone: “Dublino presuppone la sussistenza di un’uniformità sostanziale nell’applicazione dei criteri per l’esame delle domande di protezione e di applicazione delle nozioni giuridiche di protezione internazionale che in realtà non esiste. I Paesi hanno normative ed orientamenti molto diverse e questo fa sì che una stessa domanda venga esaminata con criteri incomparabili dagli Stati membri. Chi è considerato rifugiato da una parte non è tale nell’altra. E trasferirlo in un altro Paese Ue comporta persino il rischio di refoulement verso il Paese di origine”. Bove conferma: “Nel 98% dei casi l’Italia riconosce ai richiedenti asilo afghani una forma di protezione internazionale ma poi chiude gli occhi sui rischi del loro ‘refoulement indiretto’”.

4.458 sono le persone trasferite in Italia da altri Paesi dell’Ue nei primi nove mesi del 2019 perchè “dublinanti”

La proposta di riforma del Regolamento avanzata dalla precedente Commissione europea (a guida Juncker) e migliorata dal Parlamento europeo nel novembre 2017 si è inabissata, così come il pacchetto che trattava di accoglienza, qualifiche, procedure, reinsediamento. “Bisogna essere realisti -aggiunge Schiavone- per superare l’attuale situazione è necessario imporre una redistribuzione obbligatoria dei richiedenti a tutti i Paesi che fino a oggi hanno giocato al ribasso con l’obiettivo di non diventare Paesi appetibili per i rifugiati. Il principio della distribuzione deve però avvenire non se e quando si verifica in un Paese Ue una sproporzione di arrivi bensì quale criterio ordinario. Il messaggio ai richiedenti deve essere chiaro: che tu sia entrato a Lesbo, a Lampedusa o in Polonia è irrilevante: sei entrato nella casa comune europea”. Però l’obbligo della assegnazione a un dato Paese Ue va bilanciato con la valorizzazione, oggi non prevista, dei significativi legami che possono esserci tra un richiedente e un dato Stato dell’Unione in ragione di situazioni familiari, parentali, precedenti soggiorni per studio e lavoro, sponsorizzazione. I due principi si devono bilanciare. Gli Stati dell’Ue, invece, hanno una concezione diversa della solidarietà, come chiarisce Ulrich Stege, avvocato e direttore del programma di Cliniche legali dell’International University College di Torino.

“A oggi l’unico riconoscimento reciproco tra Paesi riguarda la risposta negativa alla domanda di asilo. Tale decisione è riconosciuta automaticamente in tutti i Paesi. Cosa che non succede quando invece una persona ottiene una forma di protezione”. È il paradosso: un richiedente che abbia ottenuto lo status di rifugiato in Italia (la protezione massima), oggi, non può soggiornare, lavorare, studiare o stabilirsi in un altro Stato dell’Unione. Può solo circolare fino a un limite di 90 giorni a meno che lo Stato non consenta diversamente. Non c’è un diritto “automatico” ma, come ricorda Stege, un gigantesco “mercato nero dei movimenti secondari”.

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