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Referendum costituzionale: perché respingere le sirene demagogiche del “Sì”

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Lo sfoltimento del Parlamento non migliorerebbe la (scarsa) qualità della rappresentanza e non incrinerebbe lo strapotere dei partiti che ha trasformato le Camere in assemblee di nominati. Anzi: li blinderebbe. L’analisi di Livio Pepino in vista del voto del 20-21 settembre

Il dibattito sul referendum confermativo della legge costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari è finalmente entrato nel vivo. Ciò -come sempre quando si parla di contenuti- sta modificando orientamenti e rivoluzionando schieramenti politici. È probabilmente tardi per una rimonta del No ma c’è tempo, almeno, per ragionare, anche in vista degli sviluppi futuri.

Lo sfoltimento del Parlamento in discussione non ha la portata dirompente dei precedenti tentativi di riforma costituzionale (promossi prima da Berlusconi e poi da Renzi) ma non è né irrilevante né secondario e, a ben guardare, segna una ulteriore involuzione in senso regressivo del sistema politico.
Proviamo, dunque, ad approfondire le ragioni del No, verificando la fondatezza o meno degli argomenti addotti a favore del Sì.

C’è chi dice che il taglio dei parlamentari comporta risparmi significativi per le casse dello Stato (ricordate gli slogan del Movimento 5Stelle dopo l’approvazione?) e chi sostiene che i nostri deputati e senatori sono troppi anche a fronte della media europea. Sono argomenti ormai in buona parte accantonati anche dai fautori del Sì: è chiaro, infatti, che i risparmi sono infinitesimali, che sarebbero maggiori con una congrua riduzione delle attuali indennità e che, comunque, non sono un metro di valutazione adeguato per modifiche di sistema (tagliando sanità e istruzione si è certo risparmiato ‒e ben di più‒ ma con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti).
Quanto al numero dei parlamentari il raffronto smentisce l’esistenza di significativi surplus nel nostro Paese ma, soprattutto, l’analisi comparativa, sempre scivolosa, diventa inutile o addirittura fuorviante quando si sofferma su aspetti specifici senza considerare l’intero sistema.

Passiamo, dunque, a profili più seri.
L’argomento politico prevalente a sostegno della riduzione dei parlamentari sta nella reazione alla scarsa qualità della rappresentanza e allo strapotere di partiti politici onnivori che ha trasformato il Parlamento in un’assemblea di nominati anziché di eletti (essendo stati i cittadini privati di ogni reale possibilità di scelta). Difficile non essere d’accordo sulla descrizione della realtà. Ma ciò non significa che lo sfoltimento del Parlamento sia uno strumento idoneo a risolvere (anche solo in parte) il problema.

Un approccio razionale induce, casomai, a ritenere il contrario ché la riduzione dei “posti” disponibili alimenterebbe lotte intestine per accaparrarseli, a tutto discapito della qualità e del ricambio. Non solo. Il numero ridotto dei parlamentari avrebbe come corollario inevitabile l’accesso al Parlamento di soli quattro o cinque partiti con esclusione delle minoranze politiche e territoriali (soprattutto al Senato). Come ciò possa essere fonte di maggior partecipazione e di vicinanza tra cittadini e rappresentanti è semplicemente misterioso.

Ma -secondo una variante di questo argomento- il taglio dei parlamentari darebbe finalmente una salutare spallata all’attuale sistema, sempre più insostenibile. Ahimè, non è così. Esso è stato approvato, nell’ultima lettura, da tutte le maggiori forze politiche e ancor oggi la nomenclatura dei partiti è schierata per il Sì.
Come si fa a dire credibilmente che votando come chiedono i leader e i beneficiari dell’attuale sistema lo si destabilizza e indebolisce? Ciò avrebbe una sua plausibilità solo se quei leader e comprimari si fossero accordati per abbattere i propri privilegi e il proprio potere: ipotesi possibile ma non esattamente probabile.

In realtà, votando Sì (come richiesto sia dalla maggioranza sia dall’opposizione, con poche eccezioni individuali) si blinda ulteriormente il sistema e si rafforza il potere degli apparati (che sarebbe, casomai, smentito e messo in crisi dalla vittoria del No).

Si dice ancora che il taglio dei parlamentari avrebbe come effetto una legge elettorale sostitutiva dell’attuale impresentabile “Rosatellum”. Ancora una volta si confonde la realtà con i propri desiderata.
Perché mai la riduzione dei numero dei parlamentari porterebbe con sé il cambiamento delle legge elettorale? La cosa, anzitutto, non è necessaria, perché, con la riforma, il sistema non resterebbe affatto paralizzato e sarebbe in grado di funzionare (come ha dimostrato in una recente intervista a la Repubblica l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, pur schierato per il Sì).

Una nuova legge elettorale non sarebbe, dunque, una necessità ma una scelta, legata agli equilibri politici post-referendari.
E qui iniziano incertezze e problemi. L’accordo per il cambiamento sottoscritto all’atto della formazione dell’attuale Governo non ha avuto, in oltre un anno, alcun seguito, a dimostrazione che non vi è, sul punto, comunanza di vedute tra le forze di maggioranza e anche l’inizio del percorso parlamentare di una proposta di modifica non garantirebbe il successivo iter. Ma poi –e soprattutto– quale sarebbe il contenuto di una nuova legge? Un sistema proporzionale puro o un sistema proporzionale corretto? E con quale soglia di sbarramento? E con o senza la previsione di preferenze? O sarebbe un semplice correttivo del sistema attuale?

L’incertezza regna sovrana: Italia Viva contesta esplicitamente l’accordo raggiunto, molti padri nobili e meno nobili del Partito democratico continuano a proclamare la “vocazione maggioritaria” del partito e nessuno si sbilancia sul tema della reintroduzione delle preferenze (cioè della restituzione ai cittadini della possibilità di scegliere i propri rappresentanti).
Restano alcuni atteggiamenti tattici, spuntati soprattutto negli ultimi giorni, disinteressati ai contenuti e conditi di calcoli e di previsioni in una partita politica assimilata al gioco degli scacchi.
Dicono i tattici (almeno quelli dello schieramento governativo) che la vittoria del Sì rafforzerebbe il Governo, mentre quella del No segnerebbe una sconfitta epocale del Movimento 5Stelle e provocherebbe una crisi politica e la consegna del Paese alle destre. La sinistra è morta di tattica ma i suoi eredi insistono.

Eppure dovrebbero aver imparato che la politica è forte e credibile solo se intessuta di valori e che le situazioni reali sono sempre diverse da quelle studiate a tavolino. E ciò anche a prescindere dal fatto che la vicenda degli ultimi anni del Movimento 5Stelle è una vicenda di sconfitte in tutti i maggiori temi identitari (basti pensare alle grandi opere) metabolizzate rapidamente e senza sconquassi. C’è quanto basta per respingere le sirene, demagogiche e infondate, del Sì.

Livio Pepino, già magistrato, è presidente del Controsservatorio Valsusa

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