Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Economia / Opinioni

Referendum sull’euro. Il respiro corto degli slogan

Torna alla ribalta la discussione sul mantenimento in vita della valuta nel nostro Paese. Un dibattito destinato a influenzare le prossime scadenze elettorali. Proprio per la sua importanza -riflette Alessandro Volpi- non può essere affrontato con superficialità

In questi giorni sta tornando alla ribalta la discussione, in realtà mai sopita, sull’opportunità di un referendum che abbia ad oggetto il mantenimento in vita, nel nostro Paese, dell’euro. Si tratta di un dibattito che certamente caratterizzerà la prossime scadenze elettorali, ma che, proprio per la sua importanza, non può essere affidato a meri slogan. Sarebbe opportuno, invece, entrare nel merito della questione che, se affrontata con superficialità, rischia di generare seri danni. Esistono almeno sette buone ragioni per non invocare un più o meno credibile ritorno all’età dell’oro della sovranità monetaria nazionale.

1) L’Italia è un Paese pesantemente indebitato; ha soprattutto un gigantesco debito pubblico denominato in euro assai difficile da ridurre e che dunque ha bisogno di essere costantemente finanziato. Tornare alla lira, o a una moneta nazionale, significherebbe dover collocare i titoli di tale debito a tassi di interesse proibitivi, a meno di non procedere ad una cancellazione anche parziale del debito stesso con l’immediata conseguenza di mettere i titoli italiani fuori dai mercati. In una simile ottica non sarebbe sicuramente sufficiente, per garantire la copertura del debito, fare affidamento sulla sottoscrizione dei titoli ad opera dei risparmiatori italiani perché la percentuale di debito che, ad oggi, sono in grado di coprire è solo una parte del totale. Inoltre immaginare di mettere in capo ai risparmiatori italiani il debito nazionale significa riprodurre casi di prestiti forzosi e di autarchie finanziarie che, in passato, hanno prodotto esiti assai negativi. Occorre aggiungere peraltro che, non solo l’Italia, ma vari Paesi europei sono pesantemente indebitati tanto che nei primi 11 Paesi del Pianeta per debito pubblico ben 7 sono nell’euro, per un totale di debito intorno ai 7.500 miliardi; finanziare un tale monte di carta senza una moneta forte rischia di causare un conto interessi salatissimo mentre l’euro sta favorendo, invece, una benefica e indolore ristrutturazione del debito stesso, sostituendo titoli gravati di tassi elevati con titoli a tassi addirittura negativi, decisamente benefici per i conti dei singoli Stati nazionali.

2) L’euro è diventata ormai una moneta “rifugio” che si è rapidamente apprezzata nei confronti del dollaro e sembra non risentire neppure dei più pesanti shock geopolitici interni e esterni al Vecchio Continente; una moneta “rifugio” che è diventata tale senza una reale politica europea comune, senza la condivisione delle strategie fiscali e senza una reale condivisione degli strumenti di vigilanza. Dunque davvero una divisa forte che riesce a reggere bene anche le linee espansive varate da Mario Draghi e che certamente conoscerà un ulteriore consolidamento per effetto della debolezza delle altre monete internazionali; da quelle del dollaro, afflitto da una produzione smisurata fin dal 2009 e ora alle prese con l’arrivo, insolito, di un non accademico come Jerome Powell alla guida delle Fed, decapitata senza pietà da Trump, solerte nell’infrangere una prassi di continuità che risaliva fino a Carter, a quello dello yuan non convertibile e dello yen deflazionato.

3) In questo quadro ha davvero poco senso rimpiangere la vecchia lira che è stata, storicamente, una moneta debole. Non è stata infatti quasi mai convertibile durante tutta la fase del Regno d’Italia, caratterizzato prima dalla presenza di più istituti di emissione e poi da una politica monetaria pericolosamente inflazionistica, segnata non a caso dai pesanti effetti di Quota Novanta. In età repubblicana, la moneta italiana ha conosciuto drammatiche crisi, a partire dal 1963, poi nel 1973 e nel 1976 fino alla repentina uscita dallo SME, avvenuta il 13 settembre del 1992, con il governo Amato; tutte congiunture in cui la lira ha risentito gravemente, proprio per la sua debolezza, delle tensioni esterne e le ha amplificate scaricandole sui conti pubblici. Ogni crisi, infatti, ha obbligato la Banca d’Italia ad intervenire, a caro prezzo, sul mercato delle monete, vendendo dollari e altre divise forti che aveva in riserva per acquistare le deprezzate lire; un modello non più sostenibile dopo il famoso “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro, ma in realtà già consunto da tempo.

4) Del resto le criticità della lira sono emerse bene nell’ambito dell’estrema difficoltà, per i governi italiani, di collocare il debito pubblico che, non a caso, è esploso in larghissima misura per il costo degli interessi. Nel 1992, il tasso medio di interesse dei titoli italiani era pari al 14% e a tale livello è rimasto, nella sostanza, fino a quando, dopo l’ingresso nell’euro, è precipitato nel 2004 al 2,66, mantenendosi su quella soglia anche nei momenti più drammatici. Nel 2011, infatti, in piena crisi del debito italiano, il tasso medio si è fermato al 3%, distante anni luce dai livelli raggiunti dalla lira.

5) Rimpiangere una moneta nazionale debole significa sostenere la bontà del modello che ha contraddistinto la storia economica italiana dagli anni settanta alla metà degli anni novanta, allorché le nostre imprese non coltivavano la loro competitività perché puntavano tutto sui benefici, in termini di esportazioni, derivanti dalla moneta svalutata; in altre parole, era lo “sconto” determinato dal cambio debole che rendeva le merci italiani più competitive e non certo la produttività delle imprese stesse. Ciò causava però una scarsa capacità di reggere all’urto delle crisi, determinate dall’avvento di fasi produttive generate dall’innovazione, e una pessima distribuzione della ricchezza, costantemente erosa dall’inflazione. Un simile modello si accompagnava poi ad una costante fuga dei capitali italiani all’estero, alla ricerca di lidi sicuri e di monete “di riserva” forti.

6) Non è vero che il fatto di disporre di una moneta nazionale ha reso l’Italia indipendente e “sovrana” rispetto ai mercati esteri e soprattutto all’influenza della politica internazionale. In tutte le principali crisi, infatti, da quella scaturita da Quota Novanta, dopo il 1926, al 1963, fino al 1992, le sorti della lira si sono risollevate per effetto dell’intervento di altre potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, che hanno sostenuto con più strumenti, diretti e indiretti, la ripresa di credibilità della divisa nazionale italiana. Sia in un sistema di cambi fissi sia in un contesto di cambi fluttuanti una moneta debole non riesce a sopravvivere da sola.

7) Uscire dall’euro, al di là delle difficoltà procedurali e tecniche che meriterebbero un approfondimento specifico, comporta la necessità di definire bene l’ordinamento verso cui approdare; un esito che non pare ancora molto chiaro neppure ai più convinti detrattori della moneta unica, dibattuti fra restaurate monete nazionali, ipotesi futuribili di doppia circolazione, vaghi richiami a nuove monete e ora addirittura ad una reale “monetizzazione” dei bitcoin.

In realtà, la costruzione dell’euro è stata faticosa, certamente ha scontato vari errori ma ha dotato ora l’Europa di uno strumento efficace che ha solo bisogno di essere usato bene, rivedendo il trattato di Maastricht e superando alcuni vincoli che, concepiti quando molte monete europee erano portatrici insane di inflazione, oggi non hanno più senso. Un’ultima considerazione promana dall’attuale tendenza al rialzo del prezzo dei prodotti energetici; senza una moneta forte e senza disporre di proprie risorse nel campo dell’energia, un Paese come l’Italia rischia di incamminarsi su un sentiero assai doloroso.

Università di Pisa

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.