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Si sono spesi fiumi di parole sui referendum dell’8 e 9 giugno scorso, tirando la giacchetta dei risultati là dove faceva più comodo. La Lega ha salutato l’“enorme sconfitta” per la sinistra, il presidente del Senato Ignazio La Russa ha avviato il rito funebre per “il campo largo”, la minoranza del Pd ha letto nel mancato raggiungimento del quorum la volontà del Paese di chiudere i conti con il passato, senza rappresaglie contro il “Jobs act”. Ma è andata davvero così? Quali considerazioni possiamo trarre da un’attenta analisi dei risultati referendari?

Tre punti mi paiono inequivocabili. Il primo riguarda il quorum: il mancato raggiungimento non rappresenta in alcun modo una sorpresa. Smaltite le stagioni referendarie degli anni Settanta e del 1990-1993, negli ultimi 30 anni si sono infatti tenuti 29 referendum abrogativi con un’affluenza media pari al 31% e il dato scende addirittura al 22% negli ultimi dieci anni. Di fatto, nel quadro dell’attuale astensionismo strutturale attorn


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