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Giovani emigranti. Come recuperare una generazione sfiduciata

Dei 35 Paesi dell’OCSE, dopo la Turchia, il nostro Paese conta la quota più elevata di NEET, i ragazzi che non studiano, né lavorano, né seguono percorsi di tirocinio o formazione. Ma il “rimedio” dell’alternanza “scuola-lavoro” ha dimostrato i suoi limiti. Occorre restituire dignità allo studio e alla scuola svincolandola dall’aspetto meramente utilitaristico dell’accesso al mercato. L’analisi della professoressa Elisa Lello

In questi giorni sono stati resi pubblici i dati della Fondazione Migrantes, allarmanti, a riguardo dell’emigrazione, che anche nel 2015 ha continuato a crescere, e in particolare tra i giovani italiani. Mentre l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development ) ha mostrato l’ulteriore aumento dei cosiddetti NEET -un acronimo inglese che sta per “Not in Employment, Education or Training”, e che quindi indica quei giovani che non studiano, né lavorano, né seguono percorsi di tirocinio o formazione- passati dal 19,5% (sul totale dei giovani) del 2007 al 26,9% nel 2015. Dodici punti in più della media europea. Per cui siamo al secondo posto tra i 35 Paesi OCSE, dopo la Turchia. I giovani, dunque, continuano a non trovare opportunità in questo Paese, e quindi, in percentuali crescenti, tendono ad arrendersi, oppure a cercare fortuna altrove. Le ricette proposte per sanare questa situazione vertono sul ruolo della scuola e sulla necessità di migliorare il collegamento tra scuola e mondo del lavoro, attraverso curricula più professionalizzanti e canali, forme flessibili di apprendimento-apprendistato, come la (discussa) alternanza scuola-lavoro prevista dalla “Buona scuola”.

Ma siamo sicuri che queste siano le strategie più appropriate?
Partire dalla ricerca sociale sui giovani, e nello specifico da un’analisi in profondità che tenga conto anche delle loro percezioni sulla situazione che hanno di fronte -perché da qui prendono forma le strategie che i giovani in carne ed ossa stanno già mettendo in atto- è utile anche al fine di valutare ed elaborare strategie all’altezza della complessità della sfida.

I dati di recenti indagini ci dicono che si tratta di una generazione profondamente sfiduciata nei confronti del futuro, anzi, convinta di non potersi permettere il lusso di perseguire progetti ambiziosi per la propria vita e la propria carriera. Perché, per sognare (di inseguire la propria passione, di svolgere un lavoro appagante) è necessario avere fiducia. Se cresci in mezzo ad un ambiente che continuamente ti mette di fronte all’incertezza, alla mancanza di mezzi, diritti e tutele, cresci convinto di dover ridimensionare a monte le tue aspettative: voli basso, non ti arrischi a mirare tanto in alto. Se investi in percorsi formativi, non lo fai spinto da passione o interesse: non te lo puoi permettere, o, almeno, così ti hanno indotto a credere; e, soprattutto, non scegli percorsi che non ti diano “garanzie” di occupabilità.

Quanto contano questi atteggiamenti -indotti- per spiegare dati allarmanti come quelli del calo delle immatricolazioni all’Università degli studenti italiani? O quelli che illustrano il declino delle iscrizioni al liceo classico (sceso dal 10% del 2007 al 6% attuale, secondo i dati del ministero dell’Istruzione), ovvero la scuola percepita come quella che fornisce il titolo meno direttamente spendibile sul mercato del lavoro?

Il tutto in un contesto già segnato da un drammatico disinvestimento dei giovani italiani nell’istruzione superiore: siamo tra i Paesi con minore percentuale di laureati, ma anche di giovani che abbiano conseguito un diploma di scuola secondaria superiore (dati OECD 2016); siamo il Paese, tra quelli OECD, che ha la più grande proporzione di giovani con bassi livelli di competenze alfabetiche (20%) e la seconda più alta proporzione di giovani con basse competenze numeriche (26%). Quasi inutile aggiungere che le probabilità di accrescere le fila dei NEET siano decisamente più alte per i ragazzi con basso livello di scolarizzazione.

Il problema è, più in generale, che in questo modo si attua il meccanismo della profezia che si autoadempie: i giovani sono convinti di non avere la possibilità di coltivare sogni e passioni e così si accontentano di mete molto più modeste, “alla loro portata”; se sappiamo che il lavoro non lo si trova soltanto, anzi talvolta lo si crea, d’altra parte le statistiche ci mostrano la preferenza crescente, proprio da parte dei giovani, per lavori di tipo dipendente, percepiti come rassicuranti, a scapito di carriere autonome o imprenditoriali, cioè di percorsi considerati maggiormente rischiosi. Diventa chiaro allora come la conseguenza di tutto questo è il rischio di bruciare il potenziale di crescita, innovazione, cultura che potrebbe costituire l’unico driver in grado di traghettarci fuori dalla recessione.

I dati comparativi, poi, mostrano che la sfiducia nel futuro, e parallelamente la tendenza ad accontentarsi di “un lavoretto qualsiasi” mettendo da parte sogni “irrealizzabili”, è decisamente più forte in Italia rispetto ai nostri vicini europei, anch’essi colpiti dalla “Grande Crisi”. Del resto, i giovani italiani hanno subito le conseguenze della crisi in maniera più drammatica di quanto sia avvenuto altrove, poiché le loro prerogative erano già decimate da decenni di politiche sistematicamente volte ad avvantaggiare le generazioni adulte e anziane a scapito delle nuove.

Ecco, in brevissima sintesi, perché le ricette proposte non danno risposte ai problemi che abbiamo di fronte. Innanzitutto, non si tratta tanto di istituire nuovi collegamenti tra scuola e lavoro nella forma di tirocini o stage: il problema, semmai, è l’opposto. Già oggi i ragazzi subiscono una pressione fortissima a dover scegliere i propri percorsi formativi in base alle statistiche sulla desiderabilità del titolo sul mercato del lavoro. Quello che invece si dovrebbe perseguire è un tentativo di ridare dignità allo studio e alla scuola svincolandola dall’aspetto meramente utilitaristico della capacità di formare direttamente ad una professione, restituendo ai ragazzi la libertà di scegliere e il tempo di studiare: un tempo liberato da pressioni e preoccupazioni troppo opprimenti, che è anche il tempo per coltivare passioni, interessi, voglia di fare esperienza, di apprendere per pensare autonomamente e costruire pensiero critico. “Investire sulla formazione” dei giovani è una formula che ha senso, e può davvero funzionare, solo se significa restituire loro la libertà di sentirsi svincolati dagli imperativi del mercato del lavoro per tutto il tempo necessario per una formazione libera e ambiziosa, all’altezza davvero delle sfide lavorative, e ancor prima di quelle della cittadinanza. E, allo stesso tempo, occorre ridare loro fiducia e sicurezza verso il futuro, che non deve più apparire ai loro occhi in termini di perdita, paura, minaccia; bensì come momento in cui potranno realizzare davvero i propri sogni. Per questo la scuola, le famiglie, gli adulti in generale, dovrebbero smettere di presentare il futuro, ai giovani, in termini minacciosi, guidati dalla preoccupazione di evitare loro di farsi “pericolose” illusioni. Perché, a tenere a freno i sogni, è un domani ancora meno promettente dell’oggi quello che stiamo preparando. Affinché queste non rimangano parole vuote, è necessario aggredire il gap, lo svantaggio -in termini di diritti, di tutele, di welfare- accumulatosi in decenni di politiche che hanno sistematicamente mortificato prerogative e opportunità ed eroso la fiducia delle giovani generazioni.

Elisa Lello è ricercatrice presso il DESP, Università di Urbino Carlo Bo. Le ricerche a cui si fa riferimento sono discusse all’interno del testo La triste gioventù. Ritratto politico di una generazione, Rimini, Maggioli, 2015. Per contattare l’autrice: elisa.lello@uniurb.it

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