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Economia / Opinioni

Recovery Fund, Bce, debito: l’Italia può rimanere in piedi, forse

La drastica riduzione delle capacità di pagamento di una parte rilevante dei contribuenti sta erodendo la base fiscale e anche gli enti locali avranno bisogno di aiuto per non fallire. Le prossime Leggi di bilancio dovranno fare ricorso al debito che solo la Bce può garantire. Ce la faremo? L’analisi del prof. Alessandro Volpi

Il vero nodo della discussione di queste settimane sul Recovery Fund e sugli altri strumenti europei è costituito dal tema delle risorse. Sembra davvero difficile pensare che possa essere finanziato con un sensibile incremento del bilancio comunitario, a partire dall’inizio del prossimo anno, perché rintracciare le garanzie di 2mila miliardi di euro dai contributi dei singoli Stati risulta molto complicato. Solo la Germania sarebbe nelle condizioni di sostenere una quota decisamente più pesante, magari coprendola con l’emissione di propri titoli; per molti altri, a cominciare dall’Italia, sarebbe necessaria una maggiore e impraticabile pressione fiscale o una drastica, altrettanto impensabile, riduzione delle spese. D’altra parte, lo stesso collocamento dei bond del Recovery Fund non è così scontato dal momento che dovrebbero trovare compratori tra banche, investitori istituzionali e risparmiatori in una fase estremamente critica.

È chiaro quindi che la soluzione passa quasi unicamente attraverso la Bce, che dovrà dimostrare la piena disponibilità ad acquistarli qualora rimanessero invenduti contribuendo così ad abbatterne il costo: non si tratta di mutualizzare il debito ma di adoperare l’euro in maniera condivisa per finanziarlo, che abbia i caratteri del Recovery Fund o quelli di altri strumenti. La stessa Bce dovrà, poi, continuare ad accettare in garanzia i titoli dei debiti pubblici nazionali anche se le agenzie di rating dovessero, come sembra, declassarli per evitare il collasso dei sistemi creditizi, imbottiti di tali titoli. È auspicabile che questo percorso superi le resistenze di alcuni “Paesi del Nord” che scontano un timore antico dell’indebolimento monetario; oltre alla Germania, troppo a lungo afflitta dall’inflazione, considerazioni analoghe possono valere per l’Austria, per l’Olanda e la Svezia. L’ex impero asburgico dopo la prima guerra mondiale ha pagato lo scotto di una moneta debole fino al 1925 quando introdusse lo scellino, destinato a sparire nel 1938 con l’annessione alla Germania che è tornata a “proteggere” la moneta austriaca nel 1980 con un vero e proprio agganciamento al marco.

Il fiorino olandese ha subito dure svalutazioni negli anni successivi al secondo conflitto mondiale mentre la corona svedese, a lungo abituata al gold standard, è risultata una valuta fragile che ha conosciuto la pressione dell’euro. Se il Recovery Fund funzionerà dipenderà dunque dalla Bce e dalla rimozione delle paure del passato. Per l’Italia un simile intervento è reso indispensabile da un fatto ancora più evidente. La spesa pubblica destinata al sociale sta inevitabilmente aumentando. Sono circa sette milioni i lavoratori in quella che potremmo definire “Cassa Covid”, l’insieme delle forme di ammortizzatori sociali rivolti a soggetti bloccati dall’epidemia, a cui si aggiungono i bonus dei quali si ipotizza l’aumento a 800 euro, la sempre più concreta prospettiva di un reddito di emergenza diretto a un milione di nuclei familiari e il perdurante reddito di cittadinanza. Permangono anche le agevolazioni fiscali a vaste categorie di popolazione che possono essere considerate strumenti indiretti di sussidio e il complesso delle voci assistenziali, già strutturalmente assai gravose per il bilancio dello Stato.

Nel giro di un mese e mezzo, il governo ha impegnato, e solo in parte liquidato, una somma pari ad almeno tre volte le ultime leggi di bilancio se si tiene conto del fatto che in tali leggi, tolte le clausole di salvaguardia, restavano 6-7 miliardi di euro. Si tratta di una spesa complessiva che viene inserita nell’esercizio finanziario 2020 ma che è probabile debba restare in buona parte a regime almeno per un biennio; una spesa che è indispensabile per la tenuta sociale del Paese. A ciò si deve sommare la partita delle garanzie per i prestiti alle imprese, che pare incontrare varie difficoltà per alcuni ritardi del sistema bancario e per la natura stessa del nostro tessuto economico, caratterizzato da un capitalismo molecolare cui, spesso, non bastano neppure garanzie altissime, peraltro in larga parte ancora da iscrivere nel bilancio dello Stato, e sottoposte a una normativa ancora molto asfissiante. È probabile quindi che, nei prossimi mesi, questo sistema di garanzie debba essere ripensato e integrato da forme più agevoli e dirette di sostegno a fondo perduto, sull’esempio di altri Paesi, per evitare il tracollo di interi settori. Nel frattempo si sta erodendo la base fiscale per la drastica riduzione delle capacità di pagamento di una parte rilevante dei contribuenti e anche gli enti locali, scontando in larga misura simili difficoltà, perderanno gettito e avranno bisogno di aiuto per non fallire.

In estrema sintesi, le prossime Leggi di bilancio non potranno stare in piedi senza un ricorso al debito che solo la Bce può coprire e garantire; una strada che, come accennato, non ha bisogno della difficile mutualizzazione del debito in termini europei ma può essere percorsa con l’acquisto dei titoli dei vari debiti nazionali, congelando gli spread e gli interessi. In fondo in piena pandemia l’ultima asta di Btp italiani a dieci anni ha avuto una domanda per 110 miliardi di euro, 11 volte l’offerta. Il rendimento del 2% potrà essere abbassato senza troppe difficoltà se la Bce aumenterà la propria azione di fuoco e, probabilmente, anche solo annunciando una tale intenzione.

Università di Pisa

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