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Il razzismo dei focolari ha già perso la partita

Fermare le dinamiche della storia, resuscitare idee di Stato-nazione fondato sulla difesa del territorio e sulla dimensione territoriale e “razziale” non sono strade realmente percorribili perché impraticabili in termini reali e pertanto pericolose. Dalla storia occorrerebbe invece trarre un’altra lezione. L’analisi di Alessandro Volpi

Stiamo assistendo alla trasformazione rapida, quanto per molti versi non troppo dibattuta, di alcuni concetti chiave del linguaggio della politica. In particolare, ad essere oggetto di profonda modifica sono le definizioni di Stato e di nazione, che tendono sempre più a sovrapporsi nell’ambito di una dimensione tutta difensiva dell’idea di cittadinanza.

Lo Stato costituisce il perimetro istituzionale entro cui tutelare una nazione composta interamente da cittadini nativi del luogo; in tal senso non ha margini di manovra e ben poca libertà di azione al di fuori della pressoché totale adesione alla “difesa della razza”. Si tratta di un modello non molto dissimile da quelli che hanno caratterizzato l’Europa degli anni Trenta, privato però dell’ambizione “evolutiva”. L’attuale Stato-nazione non ha mire aggressive, non ha finalità “imperiali” e neppure punta a creare l’uomo nuovo; si “limita” a difendere l’esistente nella convinzione che, tutelando gli autoctoni e distribuendo tra loro la “ricchezza nazionale”, si possa garantire il futuro del Paese. Questo razzismo dei focolari tende a produrre un sistema di relazioni internazionali estremamente conflittuale dove i confini sono, a tutti gli effetti, frontiere fisiche che devono possedere una piena materialità e devono recintare i territori, elevandoli a valore assoluto. Gli Stati sono dunque contenitori territorializzati di popolazioni native che devono produrre la propria ricchezza, proteggendosi dall’esterno con ogni tipo di confine, da quello culturale a quello doganale; una sorta di autarchia dell’immaginario rispetto alla quale ogni spostamento, a cominciare da quello delle popolazioni, deve essere meticolosamente misurato.

È possibile aprire i porti e accogliere i rifugiati solo dopo aver calcolato con maniacale attenzione quanti sono “gli immigrati” già presenti nel Paese perché tale numero deve essere messo in stretta relazione, altrettanto numerica, con le risorse disponibili e con la “ricchezza nazionale”; non è ammissibile accoglierne di più di quanto sia “consentito” dalle risorse a disposizione, naturalmente dopo che si è garantito agli autoctoni tutto quanto necessario alla loro esistenza decorosa.

Si profila così un’insostenibile visione geopolitica del mondo, dove inevitabilmente solo le realtà in grado di permettersi il mantenimento delle proprie popolazioni saranno capaci di sopravvivere e dove le popolazioni delle realtà non autosufficienti si sposteranno in maniera ancor più drammaticamente caotica. Peraltro l’illusoria e fallace ricerca dell’autarchia si scontra con un dato che è stato sempre evidente nella storia.
Non ha alcun senso provare a misurare quanti immigrati si possono accogliere in base alla ricchezza nazionale come se quest’ultima fosse un dato immodificabile o trasformabile solo “dall’interno”; i processi economici e sociali e la capacità di generare ricchezza si modificano proprio con gli spostamenti di popolazione e di risorse per effetto dei quali cambiano i livelli di reddito delle varie parti del mondo. Gli spostamenti di popolazione nel corso dei secoli sono sempre stati una spinta alla trasformazione dei modelli produttivi e al loro miglioramento, svolgendo al tempo stesso il compito di calmiere dell’inflazione perché hanno portato manodopera e consumatori dalle zone dove i prezzi dei beni non erano adeguati alla diffusa capacità di potere d’acquisto a quelle dove prezzi e potere d’acquisto erano meno distanti. Fermare le dinamiche della storia, resuscitare idee di Stato-nazione fondato sulla difesa del territorio e sulla dimensione territoriale e “razziale” non sono strade realmente percorribili perché impraticabili in termini reali e pertanto pericolose. Dalla storia occorrerebbe, invece, trarre un’altra lezione che ha caratterizzato le espressioni migliori dell’Ottocento.
L’idea di nazione che ha preso corpo in tale fase e che ha fondato la cittadinanza e l’appartenenza agli Stati si basava sulla volontà di farne parte. Si era italiani o francesi perché si voleva appartenere a quelle nazioni e lo Stato doveva riconoscere e garantire questa adesione, promuovendo i diritti individuali e il benessere collettivo. Lo Stato nazione era una comunità di soggetti che si riconoscevano in essa, di cui facevano parte e di cui rispettavano le leggi, contribuendo alla ricchezza nazionale, prodotto e non precondizione dell’accoglienza. Solo una dimensione volontaria della cittadinanza nazionale può tenere insieme e far vivere una nazione in un Pianeta infinitamente piccolo, con poche risorse e una popolazione, in costante, impressionante, aumento.

Università di Pisa

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