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Esteri / Approfondimento

Il continente nero. Nel cuore dell’Europa razzista e intollerante

Media indipendenti raccontano lo scivolamento a destra che stanno vivendo società e politica europea. La prima tappa del nostro viaggio passa da Repubblica Ceca, Spagna e Gran Bretagna

Tratto da Altreconomia 203 — Aprile 2018
I manifesti elettorali di Tomio Okamura. Il suo slogan alle elezioni dell’ottobre 2017 è stato “No Islam, no terrorismo”

“La  modalità già preoccupante del ‘noi contro loro’ si è complicata con un altro elemento. Adesso è ‘noi contro loro, ma anche contro voi che state con loro’. E quel ‘voi’ sono gli italiani che da soli, con le associazioni o con altre forme di volontariato praticano la solidarietà, l’accoglienza, la condivisione”. A confermare ciò che le cronache quotidiane mostrano è arrivato a febbraio l’ultimo rapporto di Amnesty International: quella che segnala l’organizzazione è un’Italia “intrisa di ostilità, razzismo, xenofobia e paura ingiustificata dell’altro”.

Il razzismo cresce in Italia. I mandanti sono molteplici, ma al primo posto sta la responsabilità della classe politica che cavalca e alimenta paure e insicurezze. Qual è invece la situazione nel resto d’Europa? Per rispondere ci siamo fatti aiutare dalla rete europea di media indipendenti che abbiamo contribuito a far nascere lo scorso autunno. Questa è la prima tappa del nostro viaggio.

Dalla Gran Bretagna: Eliza Anyangwe, fondatrice di The Nzinga Effect, collaboratrice del Guardian.
L’11 marzo si è diffusa la notizia di una lettera nella quale si incoraggiavano i destinatari a celebrare “La giornata della punizione per i musulmani”. Indicava anche quanti “punti” sarebbero stati assegnati per le azioni intraprese: 10 per gli abusi verbali, 30 per l’uso dell’acido come arma, e così via. Giovedì 15 marzo, “Tell Mama”, un’organizzazione che monitora l’attività antimusulmana nel Regno Unito, ha riferito che sono state inviate lettere in tutto il Paese, da Sheffield a Cardiff. Tra i destinatari anche quattro membri musulmani del Parlamento.

Questo evento, concepito per spaventare -o ispirare- non può purtroppo essere visto come un’eccezione in quella che altrimenti sarebbe una società tollerante e accogliente. Nei sette giorni trascorsi da quando è scoppiato il caso, altri episodi, ugualmente indicativi, hanno fatto notizia. “Alunni bianchi ‘hanno legato ragazzo nero per finta vendita di schiavi’”, si legge in un titolo del Times; “Soldato inglese accusato di essere membro di un gruppo neonazista ‘possedeva il manifesto dell’assassino di massa Andres Breivik’”, the Mirror.

Nel suo discorso finale in qualità di direttore uscente della polizia antiterrorismo nel Regno Unito, Mark Rowley ha definito la minaccia dei gruppi di estrema destra “significativa e preoccupante”. E ha aggiunto: “Una minaccia che prima non era così organizzata”. I numeri dimostrano che i crimini motivati dall’odio sono aumentati dopo la “Brexit”, ma il razzismo non è un problema recente. Città come Bristol e Liverpool hanno creato la loro ricchezza con la schiavitù, un commercio che per molto tempo è stato accettato anche dal grande pubblico. Il colonialismo che ha fatto seguito alla tratta degli schiavi è stato sfruttamento mascherato da scambio culturale. Ancora oggi, prominenti e istruiti britannici -per lo più uomini bianchi- ancora sostengono che colonialismo e imperialismo abbiano avuto lati positivi. Gli studenti che chiedono che le statue che commemorano i razzisti -non importa quanto fossero filantropi- siano abbattute, distrutte o spostate, sono accusati di voler buttare via il bambino con l’acqua sporca. Prima di diventare segretario agli Esteri, Boris Johnson ha scritto questo circa l’eredità coloniale della Gran Bretagna in Africa: “Il continente può essere una ‘macchia’, ma non una macchia sulla nostra coscienza. Il problema non è che una volta ne eravamo responsabili, ma che ora non lo siamo più”.

Il Financial Times ha invitato Steve Bannon a parlare al suo evento “Future of News”. È l’uomo che ha consigliato ai sostenitori di Marie Le Pen di indossare l’etichetta “razzista” come “distintivo d’onore”

La sfida che dobbiamo affrontare oggi è la misura in cui il razzismo, il bigottismo e la misoginia si normalizzano. Perché altrimenti il Financial Times avrebbe invitato Steve Bannon a parlare al suo evento “Future of News”? È l’uomo che ha consigliato ai sostenitori di Marie Le Pen di indossare l’etichetta “razzista” come “distintivo d’onore”. Naturalmente la Gran Bretagna non è solo razzista. Ha un sistema di classi che, pur condividendo a parole la meritocrazia, ha creato un terreno di gioco disomogeneo che mette a repentaglio i più poveri di ogni razza.

Come per qualsiasi pregiudizio, le affermazioni fatte dai razzisti nel Regno Unito non sono in grado di reggere il confronto: i migranti stanno paralizzando il Servizio sanitario nazionale? No, il sistema sanitario nazionale crollerebbe senza i lavoratori stranieri. Tutti i musulmani sostengono l’estremismo? No, infatti sembrerebbe che insistendo sulla possibilità di vendere armi ai sauditi, il nostro governo stia facendo di più per consentire l’estremismo.

Non esiste una soluzione semplice. Anche prima della crisi finanziaria del 2008-2009, la narrazione nazionale aveva cominciato a muoversi più a destra. La propaganda in vista del referendum di Brexit, le misure di austerità che hanno provocato un reale aumento della povertà e la crisi del processo decisionale nell’Ue in risposta alle centinaia di migliaia di persone che cercano sicurezza e opportunità in Europa, hanno esacerbato la paura preesistente dell’“altro”.

La manifestazione antirazzista “Stand Up To Racism” organizzata nel marzo 2018 a Londra
La manifestazione antirazzista “Stand Up To Racism” organizzata nel marzo 2018 a Londra

Dalla Spagna, Pablo Elorduy giornalista della redazione di El Salto
Anche in Spagna si è registrata una preoccupante recrudescenza di discorsi e atti razzisti, islamofobi e xenofobi. Fortunatamente, negli anni in cui i partiti e i movimenti xenofobi sono cresciuti in Europa nel pieno della crisi, è nato in Spagna un ampio movimento di protesta che ha saputo in larga misura dare nomi e cognomi ai veri responsabili della crisi e rifiutare discorsi xenofobi e razzisti che cercavano di trovare capri espiatori nella popolazione migrante o rifugiata.

Anche il razzismo “istituzionale” continua a progredire: vi sono misure come l’eliminazione dell’universalità del sistema sanitario, che ora discrimina gli immigrati privi di documenti, e poi c’è la legge sull’immigrazione, le incursioni della polizia contro gli stranieri, l’esistenza di centri di detenzione, eccetera. I vari attacchi terroristici sul suolo europeo, insieme all’aumento del numero di rifugiati che cercano di raggiungere l’Europa, sono stati utilizzati da alcuni movimenti spagnoli di estrema destra per cercare di diffondere discorsi razzisti e islamofobi basati sulla paura. A seguito degli attentati di Barcellona, ad esempio, sono aumentati gli attacchi contro arabi, e più in generale islamofobi. Gli attacchi e le minacce razziste sono aumentati anche sui social network, sostenuti da una sorprendente impunità, in netto contrasto con la punizione rapida e dura che viene applicata alle persone per aver scritto sui quei canali -o anche nei testi di canzoni- critiche nei confronti della monarchia o dello Stato, o anche per aver fatto battute sui leader della dittatura franchista. Ci troviamo di fronte a fenomeni nuovi, come la nascita di un centro sociale gestito da un gruppo dichiaratamente “fascista”, il cui motto è “prima gli spagnoli”.

L’attore Marius Makon, vittima di un’aggressione razzista in una caffetteria di Madrid nel marzo 2018
L’attore Marius Makon, vittima di un’aggressione razzista in una caffetteria di Madrid nel marzo 2018

Tuttavia, finora nessuno dei partiti apertamente razzisti e xenofobi già esistenti o creati negli ultimi anni è riuscito a ottenere un sostegno sociale o elettorale significativo. Finora, la destra razzista e xenofoba ha generalmente optato per un voto utile e gran parte del suo voto si è concentrato nel Partito Popolare, e ora anche in Ciudadanos. 

La crisi, l’aumento del flusso di rifugiati e gli attacchi in Europa sono stati spesso utilizzati dai governi e dai leader politici per ottenere ricompense politiche accusando le persone più vulnerabili e distogliendo l’attenzione dalle cause reali di questi fenomeni. I media hanno spesso contribuito ad alimentare la paura e il razzismo associando migranti, rifugiati o musulmani all’insicurezza, al terrorismo o al “parassitismo”.

I leader politici hanno gran parte della responsabilità. Quando le istituzioni sono colpevoli di atteggiamenti razzisti e discriminatori, il razzismo è incoraggiato dall’alto. Le leggi e le misure razziste dello Stato sono state approvate dai due principali partiti al potere. Le istituzioni (amministrazioni statali, giustizia, governo, forze di sicurezza, ecc.) sono anche responsabili di non agire adeguatamente contro il razzismo, quando perseguitano e criminalizzano quotidianamente movimenti sociali, attivisti o persone critiche nei confronti del sistema. Non a caso nel 2016 il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha stabilito che la Spagna non combatte efficacemente il razzismo.

20 i media e i progetti giornalistici indipendenti che fanno parte della rete europea alla cui nascita ha partecipato anche Altreconomia lo scorso autunno

Va ricordato che il razzismo in Spagna deriva da una concezione coloniale che esiste da secoli e che conferisce a parte del popolo spagnolo un senso di superiorità condiscendente e paternalistica sui territori precedentemente occupati. A livello istituzionale e di controllo delle frontiere, le politiche razziste non sono diverse da quelle di altre città di frontiera. È vero che ci sono stati momenti di solidarietà dall’inizio dell’arrivo dei barconi, ma nessun partito ha patito perdite elettorali per la persecuzione degli ambulanti, o per casi come Tarajal (Ceuta) in cui la Guardia Civil ha causato la morte di diverse persone che avevano cercato di nuotare oltre il confine.

Il dibattito sull’immigrazione è globale, non riguarda un solo Paese ed è fondamentale per definire il post-capitalismo in cui siamo immersi. È urgente cercare soluzioni a quella che è senza dubbio la grande sfida che l’umanità deve affrontare e che è diventata nota come la “rivoluzione” del nostro tempo. La migrazione dovuta alla guerra, il cambiamento climatico e i cambiamenti sociali e demografici sono al centro di qualsiasi agenda globale.

Dalla Repubblica Ceca, Jarolav Fiala, direttore di A2larm
Il razzismo da noi è sempre stato piuttosto forte, e questo riflette la storia del nostro Paese. Uno Stato etnicamente omogeneo, isolato, chiuso dietro la cortina di ferro. Non abbiamo mai fatto esperienza di reale immigrazione, come è invece accaduto nell’Europa occidentale. Tuttavia è sempre esistita una forte forma di discriminazione verso i rom. Vi è un altro elemento da aggiungere: da noi è sempre stato molto forte il pregiudizio legato al lavoro, sulla “voglia di lavorare”. Per questo molti in Repubblica Ceca ti diranno che non sono contro le persone per il colore della loro pelle, ma perché sono pigri. Lo pensano dei musulmani come dei greci.

Oggi è innegabile che con la cosiddetta “crisi dei rifugiati” sia cresciuta nel Paese una forte islamofobia. Anzi, anche se siamo un piccolo Paese, siamo tra i più islamofobici, credo più di Ungheria e Polonia. Le stime dicono che all’inizio della crisi almeno l’80% della popolazione fosse contro i rifugiati. La cosa paradossale è che qui non ci sono musulmani, o pochissimi. La maggior parte dei miei connazionali non ne ha mai visto uno. C’è lo stesso pregiudizio che si vede, ad esempio, negli Stati Uniti, solo che noi non ne abbiamo esperienza. Percepiscono l’Islam come una religione totalitaria, che potrebbe distruggere l’identità del Paese. In questo, molte responsabilità vanno attribuite al nostro presidente, Milos Zeman, che negli ultimi cinque anni ha dato grande forza al movimento islamofobo. Zeman è uno che afferma che dire “Islam moderato” è come dire “nazismo moderato”, ovvero che l’Islam è solo radicale. A gennaio è stato riconfermato alle elezioni presidenziali, nelle quali ha battuto, sia pur di non molto, Jiri Drahos, che pur definendosi moderato, non era molto distante quanto a posizioni su stranieri e migranti.

I media hanno giocato e giocano tuttora un ruolo di primo piano in questa dinamica. Tutti sono scivolati lentamente verso destra. Sono tre i grandi gruppi che controllano l’informazione. Il primo fa capo allo Stato, ed è molto influente. Vi sono poi due gruppi privati, riconducibili a due oligarchi. Il primo è l’imprenditore Zdenek Bakala, anticomunista e liberale, ma non razzista. E poi c’è Andrej Babis, che possiede due fra i principali quotidiani del Paese. Da dicembre 2017 Babis è Primo ministro. Esistono poi molti altri media, e tra questi vanno segnalati quelli riconducibili a un altro oligarca, Ivo Valenta, rappresentante dell’ultra destra.

Il primo ministro ceco Andrej Babis (a sinistra)stringe la mano al presidente ungherese Viktor Orbán in occasione del summit V4 del “Gruppo di Visegrad”, nel gennaio 2018
Il primo ministro ceco Andrej Babis (a sinistra)stringe la mano al presidente ungherese Viktor Orbán in occasione del summit V4 del “Gruppo di Visegrad”, nel gennaio 2018

Non possiamo dire se la politica rifletta la società, o se questa sia stata influenzata dalla politica. Quel che è certo è la responsabilità dei politici, e in particolare di chi avrebbe dovuto e forse potuto contrastare l’avanzata della destra xenofoba, e invece ha preferito legittimarne le posizioni, perdendo così elettori. In Repubblica Ceca, il partito social-democratico ha ottenuto alle ultime elezioni uno dei peggiori risultati di sempre.

Va poi ricordato il caso di Tomio Okamura, imprenditore di origine giapponese che col suo partito “della libertà e della democrazia diretta” ha ottenuto oltre il 10%.  È un caso interessante: riflette la nostra propensione a fare affidamento a persone che arrivano da fuori a “salvare” il Paese, e poi il fatto che sia giapponese -ovvero un grande lavoratore per antonomasia- dimostra una volta di più come siamo legati a quel pregiudizio. Il suo slogan però era: “No Islam, no terrorismo”.

Di fronte a tutto questo la società civile sta provando a fare opposizione, ma non c’è un movimento vero e proprio. La superficie è calma ma gli slogan sono feroci. Un populismo razzista che sta annientando il confronto, e nello spazio pubblico prevalgono i temi dell’identità e della nazione. Anche nella scuola. C’è stato qualche attacco contro rifugiati e temo che qualcosa accadrà presto.

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