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Ambiente / Intervista

Rallenta il consumo di suolo, ma è solo grazie alla crisi

Tra il 2013 e il 2015 abbiamo “coperto artificialmente” altri 250 chilometri quadrati di territorio. La velocità di trasformazione è stata di 4 metri quadrati al secondo, e si è dimezzata dai primi anni 2000. Nonostante questo -spiega ad Ae Michele Munafò, ricercatore ISPRA e curatore del rapporto 2016 presentato a Roma il 13 luglio- “nel corso degli ultimi anni non sono stati fatti interventi strutturali, dal punto di vista normativo, e superata questa fase economica tutto tornerà come prima”. Il 21,5% dell’impermeabilizzazione è concentrato nelle 14 città metropolitane

I numeri del rapporto 2016 sul “consumo di suolo”, il lavoro portato avanti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e presentato a Roma il 13 luglio, sono drammatici. Nel periodo compreso tra il 2013 e il 2015, il cemento ha coperto nuovi terreni agricoli a un ritmo di 4 metri quadrati al secondo, per un totale di 35 ettari al giorno, e di oltre 250 chilometri quadrati nel periodo. In media, il suolo compromesso (per sempre, come spiega Paolo Pileri nel libro “Che cosa c’è sotto”) è pari al 7 per cento della superficie del Paese, per un totale di oltre 21mila chilometri quadrati. Nelle aree costiere, però, questa percentuale sale anche al 45 per cento, e supera il 30 per cento in numerose province della Pianura Padana, come quelle di Milano e Monza e Brianza. Altreconomia ha intervistato Michele Munafò, ricercatore dell’Istituto -che è un ente vigilato dal ministro dell’Ambiente- e responsabile del coordinamento tecnico-scientifico del rapporto.

In media, tra il 2013 e il 2015 il consumo di suolo agricolo ha rallentato, scendendo a 4 metri quadrati al secondo. Dobbiamo vedere il bicchiere mezzo pieno?
Se proprio vogliamo sì, anche se nonostante la crisi l’Italia è riuscita a consumare comunque 35 ettari al giorno. Se a questo aggiungiamo l’assenza, ad oggi, di interventi strutturali, non vedo in che modo possiamo essere ottimisti. In altre parole se questa è la situazione in piena crisi, qualora e quando dovesse finire questo periodo di cui non abbiamo saputo approfittare per superare la condizione di dipendenza dell’economia italiana dall’industria delle costruzioni, il consumo di suolo potrebbe riprendere a velocità ancora più elevate.

Quando parlo di “interventi strutturali” intendo, ovviamente, un intervento normativo efficace: il testo di quello attualmente in discussione, già approvato alla Camera e in discussione al Senato, anche se l’iter sarà lungo, ad avviso di molti ed anche di ISPRA ha alcune limitazioni importanti. Confidiamo in un lavoro di miglioramento del Senato, e che questo avvenga in tempi brevi, ma davvero l’impianto così com’è non potrebbe avere effetti immediati, quelli che invece sarebbero necessari.


Più di un quinto (il 21,5%, quasi 5.000 chilometri quadrati) del suolo consumato in Italia al 2015, è concentrato nel territorio amministrato dalle 14 città metropolitane. Che tipo di risposta dovrebbe dare, a vostro avviso, chi amministra queste aree?

Vedo con molto piacere che nelle grandi città metropolitane una parte dei programmi elettorali si sono giocati anche su questo tema, che c’è stato questo passaggio della discussione dal livello nazionale e regionale a quello locale. Questa maggiore attenzione, evidenziata anche dalla presenza centrale del tema in molti programmi di amministratori eletti, mi sembra molto positiva. Poi è ovvio che bisognerà attendere le scelte concrete. Una legge nazionale sicuramente non basta, anche se migliorata o rivista. C’è bisogno di una presa di coscienza: questi nuovi sindaci portano sulle spalle una bella fetta di responsabilità. Credo debbano seguire la più recente giurisprudenza, che c’insegna che è possibile rivedere la previsioni urbanistiche, trasformando le area “edificabili” in aree nuovamente “agricole”, e credo che questo possa trovare il consenso della popolazione, degli interessati, che spesso non hanno nemmeno interesse a pagare gli oneri per le aree edificabili. I sindaci sono chiamati a scelte coraggiose, ma auspicabili: lo sforzo non deve guardare solo ad un miglioramento del progetto urbano complessivo, ma limitare l’espansione di nuove aree urbane su suolo agricolo.

Nella lista dei Comuni con la più alta percentuale di suolo consumato, primeggiano i piccoli, come Casavatore -nel napoletano- che sfiora il 90%, o Fiera di Primiero, in Trentino, vicino all’80%. Nel suo intervento all’interno del rapporto il professor Paolo Pileri mette in luce come nei piccoli Comuni, che spesso soffrono anche di un calo demografico, si continui a costruire. Perché?

Le cause sono tante, e quella principale è senz’altro una minore efficienza, legata a una frammentazione amministrativa. Per la prima volta, abbiamo potuto elaborare dati relativi alle trasformazioni avvenute in ognuno degli oltre 8mila Comuni italiani negli ultimi tre anni (e a metà 2016 siamo già in grado di definire dati sino a dicembre 2015): possiamo così affermare che la responsabilità del consumo di suolo ricade fondamentalmente su due tipologie di enti. Da una parte ci sono, come abbiamo visto, le grande amministrazioni, dall’altra parte i “piccoli”, che dal punto di vista del governo del territorio hanno la responsabilità di quello che abbiamo definito con un neologismo “sprinkling” (ovvero la dispersione degli agglomerati urbani italiani su ampie distese di campagna e di collina, ndr). Abbiamo elaborato anche un nuovo indicatore, legato al consumo marginale di suolo, ovvero il rapporto tra nuovo consumo di suolo e abitante insediato. Nei Comuni con meno di 5mila abitanti, il consumo marginale è più alto, e in media va dai 500 ai 700 metri quadrati di nuovo suolo agricolo “impermeabilizzato” per abitante, mentre nelle città con più di 50mila il dato di riferimento è di circa 100 metri quadrati.

Scrivete che “una corretta valutazione dell’impatto del consumo del suolo non può prescindere dall’esaminare gli effetti dello stesso nell’intorno della superficie direttamente coperta artificialmente”. Parliamo di infrastrutture: “In provincia di Milano, il comune di Vizzolo Predabissi ha avuto, nello stesso periodo, un incremento di oltre il 35%, prevalentemente a causa della realizzazione della Tangenziale Est Esterna di Milano” scrivete (vedi box). Che peso e che impatto hanno nella trasformazione del suolo? 

Le infrastrutture ancora di più hanno un peso rilevante. A livello complessivo, rappresentano il 41% del totale del suolo consumato, ma a parità di superficie hanno un impatto che si propaga molto più in là nel territorio, perché è un elemento lineare che frammenta territorio, paesaggio, habitat, che ha un impatto anche su funzioni del suolo, anche dove non è direttamente consumato.
In alcune Regioni il 55% del territorio ricade entro i 100 metri da un’area artificiale, e questo è un indicatore di ricadute indiretta. Questa è la situazione, ad esempio, di Puglia ed Emilia-Romagna, frutto di una maggiore frammentazione urbanistica e della presenza di infrastrutture ramificate. Se ampliassimo questo intervallo ad un chilometro, ma è un esercizio di stile, arbitrario, arriveremmo a coprire l’intero territorio nazionale.  
Il peso delle “infrastrutture” è significativo anche laddove guardiamo alle percentuali d’incremento del consumo di suolo tra il 2012 e il 2015. A San Floro, piccolo comune calabrese della provincia di Catanzaro, con un’area urbana limitata, è stata realizzata un’enorme distesa di campi fotovoltaici e una grande area estrattiva, che hanno quasi raddoppiato la superficie artificiale, con una crescita del 70,4%.

Ha già evidenziato (anche in una precedente intervista con Altreconomia) i limiti dell’attuale testo di legge contro il consumo di suolo, in discussione.
Nel rapporto si legge: “utilizzando le definizioni riportate nel testo approvato alla Camera, solo 115 km2 (sui 250 km2 reali) sarebbero considerati consumo di suolo”, appena il 46%. Che cosa significa?  

È una questione sostanziale, perché definendo in un modo o in un altro il “suolo agricolo” siamo in grado di tutelare aree più o meno ampie del territorio. Come dimostra un’analisi preliminare che abbiamo voluto inserire nel rapporto, oltre la metà dei cambiamenti registrati nel corso degli anni 2013, 2014 e 2015 non rientrerebbero in una definizione di consumo di suolo, e ciò deriva da una definizione di “superfici agricole” piena di esclusioni. C’è -nel testo di legge arrivato al Senato- una lunga serie di “tranne che”, che riguarda ad esempio le zone di completamento, eccezioni che oltre a rendere molto difficile l’applicazione della legge renderebbero difficile se non impossibile anche il monitoraggio, attività che viene demandata all’ISPRA. È come se ci fosse un “buco nero” nel territorio: aree che non cadono in alcuna definizione, e tutto ciò che dovesse accadervi non rappresenta consumo di suolo. Sono zone non soggette ad alcuna possibilità di controllo, e quindi anche di vincolo.



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