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Diritti / Reportage

Racconto da Bihać, al fianco delle persone bloccate lungo la rotta balcanica

Il Dom Penzionera di Bihać - © Diego Saccora

A Bihać, in Bosnia ed Erzegovina, centinaia di persone in transito lungo la rotta balcanica continuano a vivere bloccate in condizioni degradanti, tra squat e discariche. C’è chi resiste e non si rassegna alle minacce e al linguaggio dell’odio. L’azione dei volontari nel racconto di Diego Saccora

L’orologio sembra ticchettare con una cadenza diversa qui, il tempo scorrere diverso. Negli ultimi tempi a Bihać, in Bosnia ed Erzegovina, molto è cambiato, negozi chiusi, sempre più case in vendita, abitanti emigrati come gastarbeiter in Germania, Austria o Italia, bar che aprono le porte per cambiare l’aria eppure sempre stracolmi di persone e fumo che non esce nemmeno con la porta aperta per cambiar aria. Un coprifuoco che le forze dell’ordine non si preoccupano di far rispettare, mascherine quasi assenti. In città non si parla Covid-19, di zone arancioni o vaccini. “Nema problema”.

Fuori è il gelo e se si alza la temperatura è solo per diluviare, con l’acqua dai rubinetti che scende giallo tendente al marrone.
Le giornate scorrono nelle jungle, tra tende e teli rattoppati sotto ad alberi striminziti, in mezzo al fango o alla neve. E negli squat, luoghi talmente degradanti che talvolta neanche squat si possono definire: in quelli una misura minima di igiene e dignitosa pulizia la si riesce a tenere, ma qui, dove non si raccoglie quasi l’immondizia dalle strade e quando tira vento a raffiche ci si ritrova in giardino rifiuti rotolati per chilometri, significa semplicemente spostare un po’ più in là, accumulare e, piano piano, vivere dentro una discarica con centinaia di persone.

Al Dom Penzionera le luci sono soffuse, spiragli entrano dai teli gonfiati come fossero vele impietrite dalle brezze gelide. La solidarietà porta coperte, cibo e legna, ma non basta mai; si bruciano plastiche, scarpe, qualunque cosa per intiepidire. Il caldo, mai lo si sente. Si inala ogni cosa, si lacrima. Ma si sta lì. A bollire acque putride per ogni eventualità. Anche per scaldarsi dopo un bagno nella gelida Una. Qualcuno ogni tanto chiede ai volontari “Chi siete? Per chi lavorate?”. Poi, semplicemente, si sta. Forse l’unica cosa sensata o a cui si riesca a dare un senso. Stare al fianco, gli uni agli altri. Esserci. Per portar supporto, ma soprattutto per ascoltare, creare legame. Per oggi, per domani, e anche in fondo per ieri. Se ha valore la memoria di nonni vissuti nei campi di lavoro nazisti nel 1944, internati ad Ariano Irpino nel 1940 o mandati in esilio nel 1941 per le scelte dissidenti dei genitori.

Una tenda in una “jungle” – © Diego Saccora

Qui si sentono storie analoghe, stesse motivazioni, stessi timori, stesse speranze. No, non siamo nati nella parte fortunata del mondo, come spesso si sente dire, siamo nati in una parte di mondo dove sono stati commessi genocidi, la gente ha lottato, tanti sono morti e hanno perso affetti, hanno patito cose indelebili, qualcuno si è liberato, per altri semplicemente si è firmata una pace. E poi lotte operaie e lotte sociali. Conquiste, altro che fortuna. Il sogno dell’Europa, quell’Europa che spesso annoiati ed assuefatti diamo per scontata, non è un’utopia ma un posto concreto. Ce lo ricorda ogni persona con cui si entra in contatto. Qui tutti hanno un parente, un amico o anche uno sconosciuto che lo aspetta da qualche parte in qualche posto in Europa.

Il venerdì tutti vanno nelle moschee, insieme. Chi esce dalle proprie case, chi dagli squat, chi dalle tende nei boschi. Un cambio di scarpe, lasciando quelle infangate in un edificio abbandonato e a pregare con un paio di pulite. In centro è ormai appurato non poter passare, non in grandi e visibili gruppi: è socialmente accettato. Meglio evitare la polizia, ma ancor più gli esagitati che si divertono a picchiare e filmare per poi pubblicare sui social network. Come del resto accade in Grecia e in Serbia, anche qui si sta permettendo all’odio di usare il megafono perché altrimenti avrebbe l’effetto di un sussurro, mentre il bene rimane carsico ma costante. “Eroi quotidiani? No, normali. Le persone normali si comportano così quando stanno bene con loro stesse”. Lo dice Amina, tempo fa finita sulle liste di delazione nelle pagine Facebook dei gruppi anti-migranti ma che non ha mai smesso di esserci per gli altri. E se si vuol sentire una grassa risata da fumatrice accanita, chiedetele se teme la polizia e la legge che impedisce le distribuzioni. Tante donne hanno perso mariti sopra quelle montagne, le stesse dove queste persone cercano di passare; loro cercano semplicemente di aiutare con piccoli gesti di umanità, insieme a figli che i padri li hanno conosciuti solo per le foto e i ricordi materni.

Le Ong portano aiuti in grande quantità, ma lo fanno scaricando materiale di fronte agli edifici. Spesso comporta una guerra tra poveri indecente, perché non ce n’è mai abbastanza. E gestire le file richiederebbe tempo e fatica, oltre al rischio di denuncia. C’è allora chi si muove lento, andando a coprire micro bisogni di chi incontra quando serve. Almeno ci si guarda negli occhi, si scambiano parole, ci si guarda in volto. Spesso si ha l’impressione che la necessità sia scaricare magazzini e rendicontare a donatori anziché fornire aiuti in base alla necessità effettiva; sembra che chi distribuisce veda solo massa, non singole persone.

Vivere negli accampamenti e nei casolari così lontano dai centri, significa avere poco campo, nessun wifi e più difficoltà nel chiamare la famiglia a casa o chissà dove, un amico in qualche altra tendopoli, magari un trafficante. Sempre che si possiedano ancora i telefoni, che come da prassi, vengono sequestrati o distrutti insieme a vestiti e a pezzi di dignità durante i respingimenti continui dalla vicina Croazia. In questi luoghi, vivono a gruppi di dieci o quindici, in particolare pakistani, afghani e bangladeshi. Tutti in viaggio da tre, quattro anni; un lavoro prima in Iran, poi in Turchia, quindi in Grecia, storie trasversali di caporalato, perché questa è la rotta dello sfruttamento lavorativo, anche. Andare avanti riesce solo dopo tempo, quello necessario ad accumulare la somma per andarsene, pagare lo smuggler che farà passare. E, per ora, sono fermi qua.

Di notte, nelle prime settimane di febbraio, la temperatura scende a -11 in città, -14 nelle campagne -20 sulla Pljesevica. la montagna al confine croato. Il fuoco viene alimentato tutta la notte, facendo la veglia a turni. Ognuno ha coperte e sacchi a pelo ma si sveglia comunque con le ossa rotte. Asif racconta che farsi una doccia è la miglior medicina per sentirsi meglio. Anche quando la mattina l’acqua fatta bollire nel pentolone arrugginito non è calda abbastanza perché non gli si congelino i capelli.

E se qui è così, nei campi è promiscuità, confinamento in posti distanti chilometri dai centri abitati, polizie che impediscono l’allontanamento. È attesa, ancora attesa per anni delle proprie esistenze che scivolano via. Dinamiche e politiche implementate da anni, in ogni Paese della rotta balcanica e non solo. Non è un’emergenza, solo l’effetto di decisioni. E fa riflettere sapere che nelle nostre città europee ci sono migliaia di case vuote, mentre qui succede questo.

I cartelli del presidio fuori dal campo Bira – © Diego Saccora

La solidarietà tra chi vive la stessa condizione è degna di una lirica sull’epica della sopravvivenza, della fraternità e dell’amicizia. La parola resistenza non può non emergere. Anche tra i giovani bosniaci, che negli anni stanno cominciando a elaborare. Questa situazione dinanzi agli occhi ha un impatto fortissimo, complesso da gestire. Qualcuno lo tramuta in odio, forse sentendosi scavalcato nell’attenzione pubblica internazionale o perché ha paura. E allora continua ininterrotto il presidio di fronte all’ex campo Bira, paradossale se si pensa che a qualche decina di metri esiste una fabbrica diroccata dove a centinaia vivono accampati, in condizioni igienico-sanitarie disastrose, come in altri squat attorno alla città o a Velika Kladuša.

Per questo ha valore dare risalto a chi questo sentimento lo traduce in azione positiva.
Magari ha avuto un parente rinchiuso in un campo di concentramento nel 1994 e ora se lo chiede a che è servito se i suoi concittadini reagiscono così, oggi. “Perché rimango ore e ore con loro?”, dice Ademir mentre sorseggia l’ennesimo čaj dopo aver distribuito vivande e scarpe. “Perché ha senso restare. Ha senso condividere, conoscere e tramandare storie, odori, pensieri, sofferenze e risate, ogni momento di questo periodo e della profondità di ogni persona”.

Diego Saccora, operatore sociale, è membro dell’associazione “Lungo La Rotta Balcanica”. È co-autore del libro “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo”, infinito edizioni (2016) nonché del dossier “La rotta balcanica” a cura della rete “RiVolti ai Balcani”

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