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Cultura e scienza / Opinioni

Quiz a premi e cultura, il paradosso nell’Italia che non sostiene la ricerca

Nell’Italia del 2018 un archeologo precario che vuol provare a fare il suo mestiere ha più chances di riuscirci andando a un quiz televisivo che concorrendo ai fondi pubblici per la ricerca. Il testacoda è riuscito, come nell’Inghilterra di Blair

Tratto da Altreconomia 201 — Febbraio 2018
Paolo Storchi con la sua équipe dell'Università la Sapienza e della Syddansk di Odense

Italia 2018. Un giovane archeologo precario sbanca l’Eredità, e decide di destinare parte della vincita a finanziare la sua ricerca, cioè uno scavo. “Quando ero bambino facevo parte del gruppo archeologico di Sant’Ilario d’Enza -ha spiegato a la Repubblica Paolo Storchi, oggi trentaduenne- e già allora il mio sogno era quello di scoprire questa città nascosta”. Un sogno che ha coltivato negli anni, dedicando all’archeologia ogni suo sforzo. Non senza delusioni. “Fare ricerca in Italia -spiega- è già difficile se ti occupi di materie scientifiche. Quando vuoi fare l’archeologo, investendo tutto il tuo sapere nella cultura, diventa impossibile”. E così l’eredità culturale nazionale si riesce a studiare e a conservare solo grazie all’Eredità di Fabrizio Frizzi. Un paradosso, quello del rapporto tra gioco a premi e cultura, che conosce qualche precedente, decisamente meno edificante.

È il 1997 quando il ministro per i Beni culturali Walter Veltroni fa istituire una seconda estrazione settimanale del Lotto, il mercoledì, destinando una parte degli incassi a finanziare il patrimonio culturale. “Scherza Veltroni -si legge su la Repubblica di allora- Novanta, paura e novità, può ben rappresentare anche la storia del nostro patrimonio culturale: per paura della novità, lo si è lasciato cadere in pezzi”. Sembra di sentire già Renzi o Franceschini: la colpa del disastro del patrimonio sarebbe dei vecchi soprintendenti gufi, non della classe politica più ignorante e corrotta d’Europa. La retorica era già allora quella della “modernizzazione”, e il modello era Tony Blair: “L’idea è stata ricalcata dall’esempio inglese”, spiegava allora Veltroni.

Proprio quell’idea inglese è stata radicalmente contestata da uno dei massimi intellettuali anglosassoni contemporanei, Tony Judt: “Che si consideri il gioco d’azzardo un peccato o no, è difficile negare che si tratti di un passo indietro nella politica sociale: il gioco d’azzardo è un sistema di prelievo fiscale indiretto, regressivo e selettivo. Fondamentalmente si incoraggiano i poveri a spendere denaro nella speranza di raggiungere la ricchezza. Invece di riconoscere la necessità di determinati servizi pubblici -la cultura, lo sport, i trasporti- ora si evitano le imposte impopolari coprendo tali spese con gli introiti delle lotterie, le quali contano su una partecipazione spropositata, e quindi sul sostegno, dei segmenti meno informati e più poveri della società.

Gli operai britannici, che magari non sono mai stati a teatro, all’opera o a un balletto in vita loro, sovvenzionano ora, con la loro propensione al gioco d’azzardo, le attività culturali di una piccolissima élite i cui oneri fiscali sono stati ridotti di conseguenza. Eppure, a memoria d’uomo era vero il contrario: ai tempi della socialdemocrazia degli anni quaranta e cinquanta erano i ricchi e i ceti medi a essere tassati per garantire a tutti la disponibilità di biblioteche e musei”. La socialdemocrazia è notoriamente finita da un pezzo. Nell’Italia del 2018 un archeologo precario che vuol provare a fare il suo mestiere, che ha uno straordinario interesse pubblico, ha più chances di riuscirci andando a un quiz televisivo che concorrendo ai fondi pubblici per la ricerca. “Mi aspettavo tante critiche dal mondo accademico -ha detto- invece mi hanno scritto tanti colleghi archeologi entusiasti sia per la partecipazione in tv sia per la vincita. Non me lo aspettavo ma ne sono contento: chissà se non è arrivato il momento che anche l’Italia si accorga che la ricerca ha bisogno di più sostegno”. Chissà.

Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia

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