Diritti / Opinioni
Quelle proteste “dense di eventi” che hanno mostrato ciò che Gaza rappresenta nel mondo
L’intensificazione oceanica delle mobilitazioni per la Palestina libera, in Italia e a livello globale, è un caso esemplare di come le risorse per la protesta aumentino durante le azioni stesse. Nel nostro Paese da oltre due anni un’ampia rete di organizzazioni di movimenti sociali attive nelle lotte femministe, nell’ambientalismo e nell’antirazzismo, nonché i sindacati, hanno unito le forze con attori pacifisti. Donatella della Porta, professoressa di Scienza politica alla Scuola Normale Superiore a Firenze ne riannoda i fili, per non disperderne la portata
Questo intervento è la traduzione italiana di quanto pubblicato dalla rivista Logos (2025, vol. 24, NO 1-2). Li ringraziamo per la disponibilità.
Il 22 settembre di quest’anno diversi sindacati di base in Italia hanno indetto uno sciopero generale di 24 ore per protestare contro la complicità del governo italiano nel genocidio israeliano a Gaza, sostenere lo sforzo della Global Sumud Flotilla per portare aiuti umanitari alla popolazione affamata e chiedere la fine dell’economia di guerra. Fino a 500mila persone si sono mobilitate nelle strade in 90 manifestazioni di protesta in tutto il Paese sotto lo slogan “Blocchiamo tutto”, con diverse occupazioni di porti, stazioni ferroviarie e autostrade a Roma, Milano, Torino, Genova, Firenze, Bologna. Il principale promotore dell’iniziativa, l’Unione sindacati di base (Usb), ha chiesto “l’immediata interruzione delle relazioni con lo Stato terrorista di Israele, che è il modo concreto in cui l’Italia può e deve reagire al genocidio in atto”. Da allora le proteste si sono moltiplicate assumendo varie forme.
Il 3 ottobre 2025 è stato indetto un nuovo sciopero generale contro il genocidio israeliano, questa volta dai sindacati di base ma anche dalla Cgil. Due milioni di persone si sono mobilitate nelle strade marciando, bloccando porti e stazioni ferroviarie, interrompendo il traffico e occupando scuole e università, mostrando che “l’Italia lo sa da che parte stare, Palestina libera dal fiume al mare”. Ho risposto alle domande di diversi giornalisti provenienti da tutta Europa che volevano sapere: “Perché adesso? E perché in Italia?”. Penso che ci siano diverse ragioni.
Innanzitutto la protesta in solidarietà con la Palestina è cresciuta negli ultimi due anni grazie al sostegno di un mix di organizzazioni e attivisti vecchi e nuovi. L’estate è stata intensa, con migliaia di atti di resistenza e disobbedienza che hanno permesso a un gran numero di cittadini di mobilitarsi e sentirsi più forti attraverso flash mob e scioperi della fame. Ma poi c’è stata una scintilla, poiché la Global Sumud Flotilla ha rappresentato un modo per fare qualcosa contro un genocidio che si è intensificato nelle forme più disumane.
Lo shock morale è stato catalizzato quando i portuali di Genova hanno lanciato il loro motto orgoglioso: “Se bloccano la flottiglia, noi blocchiamo tutto”. La forma stessa della flottiglia, che univa l’impegno eroico alla partecipazione globale, ha creato una forte identificazione da parte di lavoratori e studenti, pacifisti e femministe, le numerose diaspore e i cittadini italiani vittime di razzismo, vigili del fuoco e poliziotti progressisti, ma anche detenuti, alunni e loro insegnanti, i sindacati di base e la Cgil, la sinistra tradizionale e le nuove generazioni di sinistra, autorità religiose e laiche. In particolare, sono stati i palestinesi a incoraggiare con il loro esempio a resistere e opporsi a uno dei peggiori genocidi della storia. Al momento sembra una marea inarrestabile.
Di seguito, svilupperemo l’analisi di una intensificazione delle proteste in Italia per presentare alcune riflessioni più generali su quello che è diventato noto come movimento sociale globale per una Palestina libera. In particolare, proporremo il concetto di “eventful protests“ (proteste come dense di eventi) per evidenziare come la politica controversa si produca nell’azione, attraverso le interazioni di diversi individui e collettivi.
Dal 7 ottobre 2023, quando Hamas e altre milizie palestinesi hanno lanciato l'”Operazione Al-Aqsa Flood”, la guerra di ritorsione di Israele contro Gaza ha portato a conseguenze devastanti con attacchi che si sono estesi alla Cisgiordania e a Gerusalemme, nonché ad altri Paesi della zona, tra cui Libano, Siria, Tunisia, Qatar e Yemen. Al momento l’esercito israeliano ha ucciso oltre 70mila civili, sfollato più di due milioni di palestinesi, distrutto il 70% di Gaza, compresi ospedali, scuole e università, e spinto un intero popolo sull’orlo della sopravvivenza senza acqua, cibo, medicine o elettricità. Nonostante la Corte internazionale di giustizia (Icj) abbia avvertito Israele di impedire il genocidio, gli attacchi si sono intensificati per due anni mentre la maggior parte dei governi occidentali e dei media mainstream sono rimasti in silenzio o addirittura complici.
Tuttavia la solidarietà globale è cresciuta contro quello che è stato definito il primo genocidio della storia visibile in diretta. In tutto il mondo milioni di persone sono scese in piazza con richieste che vanno dal cessate il fuoco alla fine della carestia imposta da Israele, dalla Palestina libera alla fine dell’occupazione coloniale. Le coalizioni mobilitate in tutto il mondo su queste rivendicazioni sono state ampie ed eterogenee. Diversi Paesi hanno coinvolto in varie costellazioni associazioni della diaspora e comunità religiose, studenti e lavoratori, femministe e ambientalisti, pacifisti e antirazzisti, vecchie e nuove generazioni di sinistra, gruppi antimperialisti e anticolonialisti, grandi organizzazioni della società civile e centri occupati, organizzazioni di solidarietà laiche e religiose. Le organizzazioni dei movimenti sociali in solidarietà con la Palestina, attive già molto prima del 7 ottobre, si sono ritrovate rivitalizzate e rimodellate, sviluppando nuovi repertori di protesta pur continuando ad attingere alle pratiche consolidate. Nuove organizzazioni e piattaforme civiche sono emerse rapidamente in tutti i Paesi a livello locale, nazionale e transnazionale.
Queste mobilitazioni sono state caratterizzate da un repertorio multiforme di azioni. Un gran numero di attivisti ha partecipato a marce, piccole e grandi; il boicottaggio delle entità israeliane è stato promosso nel mondo accademico, artistico e sportivo, nonché nei confronti delle aziende con elevati investimenti in Israele; gli scioperi della fame hanno mobilitato specifiche professioni; le conoscenze sono state acquisite negli accampamenti universitari e diffuse da artisti e intellettuali. Più recentemente, la disobbedienza civile è emersa come forma centrale di protesta in grado di raggiungere direttamente l’obiettivo attraverso il blocco delle navi che trasportano armi a Israele e delle flottiglie che cercano di forzare i blocchi israeliani per portare cibo a Gaza.

Queste proteste sono state represse in molti Paesi, prendendo di mira soprattutto i gruppi più vulnerabili, come i migranti, le comunità arabe e musulmane vittime di razzismo, ma in molti casi si è estesa anche a personaggi pubblici di spicco, compresi quelli ebrei, che hanno espresso solidarietà al popolo palestinese. Soprattutto nei Paesi che sono stati più coinvolti nel commercio di armi con Israele (come gli Stati Uniti e la Germania) e in quelli che hanno maggiori responsabilità storiche per la Nakba palestinese dal 1948 (come il Regno Unito e la Francia), i tentativi di sopprimere la solidarietà con la Palestina sono stati i più pronunciati, con brutali interventi della polizia contro manifestanti pacifici e vessazioni nei confronti degli attivisti attraverso provvedimenti disciplinari amministrativi (fino al licenziamento e all’espulsione) e diffamazione pubblica. Il panico morale è stato infatti scatenato dalle lobby filo-israeliane, dai politici e dai mass media, che hanno strumentalizzato l’accusa di antisemitismo, facilitata dall’ampia adozione della definizione operativa dell’International holocaust remembrancea alliance (Ihra), che equipara l’ebraismo a Israele, e dalla criminalizzazione delle organizzazioni di movimenti sociali non violenti come la rete Boycott, divestment and sanction (Bds). In questo processo, con il sostegno dell’estrema destra, l’accusa di antisemitismo è stata utilizzata in campagne razziste contro i migranti arabi e musulmani ma anche contro le minoranze etniche e la sinistra tout court accusata di “importare” l’antisemitismo nella civiltà occidentale moralmente superiore.
Lo sviluppo del massiccio movimento sociale globale per una Palestina libera può essere spiegato dalla convergenza di diverse grandi correnti di contestazione di ingiustizie di vario tipo. In esso possiamo infatti individuare dinamiche tipiche dei movimenti di solidarietà internazionale, delle campagne di protesta pacifiste, delle mobilitazioni contro l’eredità colonialista guidate dagli attivisti della diaspora ma anche, più in generale, di un movimento contro il capitalismo, il razzismo e il patriarcato. Resistendo alla reazione dell’estrema destra (e alla svolta a destra di molti partiti di centro-sinistra), le proteste in solidarietà con la Palestina si sono opposte al razzismo e alla repressione interna, resistendo a una svolta autoritaria che sta interessando sempre più anche le democrazie consolidate. In momenti diversi e con diversa intensità, il movimento globale per la Palestina si è anche intersecato con la resistenza allo sviluppo neoliberista nel sistema educativo e nell’economia in generale, mobilitando studenti e lavoratori sulle loro condizioni di precarietà e sfruttamento ma anche sul contenuto morale delle loro attività.
Pur invitando a tenere “gli occhi puntati su Gaza”, le massicce proteste hanno anche affrontato ciò che Gaza rappresenta nel mondo, opponendosi alle istituzioni che hanno costantemente deviato dai loro principi proclamati, aiutando e favorendo il genocidio israeliano. Infatti le richieste principali hanno spaziato da un appello per un cessate il fuoco immediato, ai soccorsi umanitari alla popolazione assediata a Gaza, al diritto dei palestinesi all’autodifesa e all’autodeterminazione, fino a un appello per smantellare il progetto imperialista sionista e il suo regime. Slogan come “non è iniziato il 7 ottobre” o “non è una guerra, è un genocidio” hanno sottolineato l’inquadramento degli eventi di Gaza in una più ampia lotta di liberazione, indicando anche una presa di coscienza internazionale della catena di complicità che in Occidente ha portato all’attuale genocidio israeliano sostenuto dall’Occidente.
Come è stato osservato nelle precedenti ondate globali di proteste, sebbene gli eventi internazionali abbiano influenzato il flusso delle manifestazioni a favore di una Palestina libera, persistono variazioni nazionali, plasmate da contesti politici e sociali diversi, nonché da tradizioni di movimento differenti. Queste variazioni cambiano il modo in cui i movimenti coordinano, cooperano e inquadrano le loro lotte all’interno e tra i diversi contesti. Inoltre pur derivando certamente da rivendicazioni, i movimenti sociali non emergono automaticamente quando l’insoddisfazione è alta. L’inquadramento di un problema come politico e la mobilitazione delle risorse organizzative sono passi necessari per trasformare le rivendicazioni in azione. In questo senso è importante osservare come le organizzazioni dei movimenti sociali solidali con la Palestina siano riuscite a creare e mantenere coalizioni per un lungo periodo di tempo. In particolare ampie alleanze tra minoranze razzializzate, comunità della diaspora e organizzazioni di movimenti sociali incentrate su diverse questioni (dai diritti dei lavoratori, al cambiamento climatico, al transfemminismo, al sostegno ai migranti e all’antirazzismo) si sono formate attorno a un quadro generale anticolonialista, denunciando e opponendosi a diverse forme di colonizzazione e dominio che si intrecciano nella causa palestinese, collegando la questione della pace e della guerra a discorsi più ampi e ad altre lotte per la giustizia sociale e la democrazia.

Inoltre questi processi sono emersi dall’azione stessa, poiché spesso è durante le proteste che si creano legami tra gruppi molto diversi ed emerge una narrativa condivisa che porta in piazza organizzazioni esistenti e nuove ma mobilita anche attivisti di lunga data insieme alle nuove generazioni che si avvicinano alla protesta per la prima volta. Per studiare le mobilitazioni in solidarietà con la Palestina, è quindi essenziale analizzare i meccanismi di intensificazione delle proteste, osservando come un movimento sociale globale per una Palestina libera sia emerso, si sia espanso e si sia trasformato in contesti diversi.
Inseriti nel momento fordista, all’inizio gli studi sui movimenti sociali ipotizzavano un sistema stabile (anche se conflittuale) opponendosi a una visione dei movimenti sociali come patologici. Molte importanti ricerche hanno sottolineato la “normalizzazione” delle proteste. In generale molte riflessioni si sono concentrate sui “periodi tranquilli”, ovvero quei periodi in cui le strutture limitano fortemente l’azione, gli eventi e le reazioni agli eventi sembrano prevedibili, prevalgono le routine, i cambiamenti avvengono a ritmo lento, si persegue l’obiettività e la situazione è considerata “normale”. Ciò ha certamente aiutato la nostra comprensione dello sviluppo dei movimenti sociali in determinate circostanze. Tuttavia il periodo post-fordista ha messo in discussione alcune di queste condizioni attraverso la sempre maggiore incertezza neoliberista legata alle crescenti e molteplici disuguaglianze, alla diffusione di sentimenti di esclusione e alle molteplici crisi di responsabilità politica. Le riflessioni sociologiche hanno quindi affrontato l’accelerazione del tempo e il ruolo crescente degli eventi nel catalizzare la protesta. I tempi intensi emergono quindi come tempi in cui l’azione sfida i vincoli strutturali, la prevedibilità si riduce, l’influenza degli eventi congiunturali aumenta, le decisioni vengono prese ad alta velocità e la necessità di una valutazione soggettiva aumenta in condizioni considerate straordinarie.
In questo contesto il concetto di “eventful protest” (come protesta densa di eventi) è stato proposto per analizzare gli effetti della protesta sul movimento sociale stesso. Alcuni eventi di protesta costituiscono processi durante i quali si sviluppano esperienze collettive attraverso le interazioni di diversi attori individuali e collettivi che vi partecipano con ruoli e obiettivi diversi. La protesta, quindi, non solo produce rotture ma costruisce anche nuove norme formando arene prefigurative, creando nuove reti e sviluppando sentimenti di solidarietà “in azione”. In questo senso, alcuni eventi contribuiscono a intensificare il tempo rompendo le vecchie istituzioni e permettendo l’emergere di nuove. Le proteste ricche di eventi innescano un processo di intensificazione del tempo, che da un lato implica una fluidificazione delle strutture e, dall’altro, una densificazione delle relazioni.
La recente intensificazione delle proteste per una Palestina libera in Italia rappresenta un caso esemplare di come le risorse per la protesta aumentino durante le azioni stesse. In Italia, dall’ottobre 2023, un’ampia rete di organizzazioni di movimenti sociali attive nelle lotte femministe, nell’ambientalismo e nell’antirazzismo, nonché i sindacati, hanno unito le forze con attori pacifisti. La leadership delle mobilitazioni pro-Palestina è stata rapidamente assunta dai Giovani Palestinesi, un gruppo formato nel 2020 che comprende palestinesi della diaspora, giovani di lingua araba (spesso di seconda generazione) e giovani italiani, principalmente studenti. Al loro fianco, un ruolo centrale è stato svolto dal Coordinamento nazionale Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni (Bds) e dalle organizzazioni filopalestinesi che erano attive già prima del 7 ottobre 2023. Sebbene non sempre massicce, le proteste sono state persistenti nel tempo e molto diffuse su tutto il territorio italiano. È stato tuttavia nel settembre 2025 che i sindacati di base sono riusciti a catalizzare una resistenza enorme e massiccia contro il genocidio israeliano, grazie anche al radicamento territoriale del movimento di solidarietà con la Palestina.
Il punto di svolta che ha scatenato lo sciopero generale per Gaza, menzionato nell’incipit, è stata la marcia di Genova che, il 31 agosto ha mobilitato 50mila cittadini che auguravano buon vento alla nave che sarebbe partita dal porto della città per unirsi alla Global Sumud Flotilla. Ricordando la Freedom Summer del 1964, quando gli attivisti degli Stati del Nord degli Stati Uniti si recarono nel Sud per aiutare gli elettori neri a registrarsi, sfruttando la loro visibilità per proteggere gli attivisti neri (McAdam 1984), anche gli attivisti che hanno navigato verso Gaza su più di 50 navi provenienti da tutto il mondo hanno messo a rischio la loro vita, sfruttando la loro visibilità per sensibilizzare l’opinione pubblica e mettere alla gogna non solo Israele, ma anche i governi occidentali complici che stanno armando il genocidio israeliano. In questo processo essi costruiscono ma anche creano legami globali e prefigurano un altro mondo, un mondo di giustizia e solidarietà.
In occasione della protesta a Genova l’impegno di solidarietà con i palestinesi si è inserito nella storia di resistenza che ha caratterizzato la città. Così, partecipando alla marcia, la sindaca ha dichiarato quanto fosse orgogliosa di essere tale in una città che è stata insignita di una medaglia d’oro per la sua resistenza al nazifascismo e che ora sta dando il via a una nuova ondata di resistenza contro un nuovo genocidio. Lo shock morale del genocidio risuona con la lunga tradizione di solidarietà di Genova e del suo porto.
La preparazione della partenza della flottiglia ha visto la nascita di una coalizione di organizzazioni di tipo molto diverso, dal mondo del lavoro (superando la concorrenza tra i sindacati) al sistema educativo (riunendo diversi gruppi studenteschi), alle associazioni pacifiste cattoliche e laiche. I sindacati hanno fornito infrastrutture materiali e umane per l’azione a favore della Palestina, mentre la chiesa cattolica, compreso l’arcivescovo, ha benedetto la flottiglia. A sostegno della flottiglia, 100mila cittadini hanno portato più di dieci volte la quantità di cibo prevista. La sindaca si è recato più volte sul posto per incoraggiare i manifestanti. L’intero porto si è mobilitato per aiutare la flottiglia. La marcia di Genova è stata seguita con simpatia anche dalla maggior parte della stampa mainstream.

Durante la protesta, la sindaca ha elogiato il coraggio di coloro che stavano per salpare per portare cibo a Gaza, ma anche la solidarietà delle decine di migliaia di persone che hanno donato cibo e dell’associazione di volontariato che ha coordinato l’evento, in particolare il Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp), che è stato al centro della disobbedienza civile contro il traffico di armi, rifiutandosi di caricarne da consegnare a Israele. In cinque anni il Calp si è trasformato da piccolo collettivo, indagato dalla polizia come “terrorista”, a collettivo influente, invitato in Vaticano e benedetto dal papa, rappresentando l’immagine della Genova che resiste. È stato durante la veglia per la flottiglia che è stato lanciato lo slogan con cui è stato indetto lo sciopero generale, quando uno dei portuali del Calp ha dichiarato: “Se Israele non permetterà che questi aiuti umanitari vengano consegnati alla popolazione palestinese di Gaza, da questo porto non partirà più nemmeno un chiodo per Israele”. Il portavoce della Calp ha spiegato: “Se perdiamo il contatto con le nostre navi, con i nostri compagni, anche solo per 20 minuti, bloccheremo tutta l’Europa. Insieme al nostro sindacato Usb, insieme a tutti i lavoratori portuali, insieme a tutta la città di Genova”. Durante la veglia con le fiaccole, i lavoratori portuali hanno dichiarato: “I nostri ragazzi e le nostre ragazze devono tornare senza un graffio, e tutte le nostre merci, che appartengono al popolo, fino all’ultima scatola devono arrivare a destinazione”. E se qualcuno proverà a fermare le navi, “bloccheremo tutta l’Europa”.
La diffusione della protesta avviene solitamente quando vengono adottati e adattati repertori di successo. La protesta di Genova ha messo in luce il potenziale delle lotte dei lavoratori di interrompere il supporto logistico ai crimini israeliani. È interessante notare che, mentre la gestione neoliberista del porto ha intaccato la capacità di mobilitazione dei lavoratori, la solidarietà internazionale e la combattività dei lavoratori che caratterizzavano i portuali in passato stanno oggi riemergendo. I portuali stanno facendo infatti quello che avrebbe dovuto fare l’Unione europea: bloccare le armi dirette a Israele. Dopo i lavoratori portuali di Genova, anche quelli di Livorno (la città toscana che ha ospitato il primo congresso del Partito comunista italiano nel 1921) sono riusciti a impedire l’ingresso in porto di una nave statunitense che trasportava armi, dopo che per molti giorni 300 cittadini hanno occupato il porto per opporsi al genocidio israeliano. Un ruolo fondamentale è stato svolto dai sindacati di base e dai collettivi dei portuali, che hanno spinto le autorità e i principali sindacati ad aprire un tavolo di negoziazione.
Il blocco del commercio di armi con Israele è poi continuato, grazie ai lavoratori portuali, al loro radicamento nel territorio e alla solidarietà internazionale. Anche i lavoratori del porto di Ravenna, d’accordo con il sindaco della città, hanno rifiutato di essere complici di un genocidio, così come quelli di Taranto, contrastando l’ingresso nel porto di una nave che trasportava attrezzature militari destinate a Israele. Lo stesso è successo più volte nel porto di Livorno. Il 27 settembre è stato ancora a Genova che i lavoratori hanno costretto una nave a lasciare il porto senza il suo carico di armi. Ben 25mila persone, tra cui la sindaca, hanno marciato di nuovo per le strade di Genova in sostegno a Gaza e alla Flotilla. “Blocchiamo tutto” non è uno slogan astratto: per metterlo in atto, i lavoratori portuali stanno pianificando un’assemblea internazionale e discutendo la possibilità di fermare tutti i commerci da e verso Israele. A Genova e in altre città portuali, la movimentata protesta a sostegno della Global Sumud Flotilla e contro il genocidio israeliano ha anche catalizzato un’identità collettiva solidale, radicata nella tradizione storica, nel porto, nella resistenza ai nazisti e ai fascisti. L’appello “blocchiamo tutto” ha avuto effetto di incoraggiamento all’azione su tutti coloro che si oppongono al genocidio poiché i lavoratori hanno costruito forti alleanze con i cittadini e il porto è diventato un simbolo positivo per tutti.
Queste proteste, che hanno preceduto e seguito lo sciopero generale del 22 settembre, sono state significative per la loro capacità di ispirare anche altre forme di protesta da parte di una varietà di gruppi sociali e politici. Lo stesso giorno dello sciopero, nel più importante teatro italiano, la Scala di Milano, tutti gli artisti sono saliti sul palco sotto un grande striscione contro il genocidio, mentre i cinema hanno avviato una campagna a sostegno della Global Sumud Flotilla e della Palestina. Di fronte alla complicità dei governi occidentali anche l’azione umanitaria è diventata politica. Così mentre Emergency ha inviato la sua nave a sostegno della flottiglia, l’Unicef e Save the Children denunciano il massacro dei bambini a Gaza e Oxfam, Medici senza frontiere, Medico International, Amnesty International, Human Right Watch e molti altri fanno appello all’opinione pubblica e ai governi affinché pongano fine ai massacri di civili. L’Arci, la più grande rete della società civile per le attività culturali e ricreative in Italia, ha partecipato con una nave alla Global Sumud Flotilla per rompere l’assedio e il silenzio, chiedendo una Palestina libera e opponendosi al genocidio.
Durante l’estate centinaia di migliaia di cittadini hanno partecipato alle proteste orizzontali contro il genocidio lanciate con lo slogan “Ultimo giorno di Gaza”, appendendo lenzuola bianche alle finestre e ai balconi per ricordare i sudari che avvolgono i corpi dei palestinesi uccisi. In tutto il Paese, dalle grandi città ai piccoli villaggi, sono state organizzate performance e flash mob contro il genocidio. I cittadini si sono anche mobilitati contro un uso del territorio e delle località turistiche come luoghi di recupero dalle attività militari da parte dei soldati israeliani. In Italia, come a Cipro, in Grecia, Portogallo e Spagna, questo uso immorale del territorio e l’accaparramento di terreni per progetti speculativi di comunità israeliane recintate sono stati contestati in Sardegna, Marche e Campania. Le richieste di boicottaggio dei rappresentanti dello “Stato israeliano assassino” si sono moltiplicate nelle competizioni sportive, nei concorsi artistici e nelle fiere commerciali. In modo più visibile, alla Biennale del Cinema di Venezia molti attori e registi hanno espresso orrore per la carestia imposta da Israele a Gaza e sostegno alla Global Sumud Flotilla. Ricevendo il Leone d’Argento per “The voice of Hind Rajab” (che ha ricevuto una standing ovation di 24 minuti alla sua prima), il regista Ben Hanua ha dichiarato: “La sua voce continuerà a echeggiare fino a quando non ci sarà una vera responsabilità e giustizia. È tragicamente la storia di un intero popolo che subisce il genocidio inflitto da un regime criminale israeliano che agisce nell’impunità”.

Anche gli scioperi della fame si sono diffusi come forma di protesta collettiva per esprimere l’indignazione morale. Ben 15mila operatori sanitari hanno partecipato oggi a uno sciopero della fame contro il genocidio israeliano a Gaza. La protesta, indetta da Health workers for Gaza, si è diffusa in tutto il Paese con il supporto di diverse organizzazioni della società civile. In alcune città si sono mobilitati interi ospedali con il sostegno dell’associazione professionale dei medici italiani. Gli operatori sanitari hanno reso omaggio ai loro oltre 1.400 colleghi uccisi da Israele a Gaza, ricordando le 125 strutture mediche, le 186 ambulanze e i 34 ospedali bombardati da Israele. Parte delle campagne di protesta degli operatori sanitari italiani per Gaza è il boicottaggio riuscito dell’azienda farmaceutica israeliana Teva. Il riconoscimento ottenuto dagli operatori sanitari durante la pandemia da Covid-19 sembra essere stato rilevante anche nel garantire una copertura mediatica ampia, diffusa e solidale alle loro azioni.
Le proteste sono significative quando riescono anche a influenzare gli attori istituzionali. Rinvigorendo la tradizione del municipalismo impegnato in segno di solidarietà, la bandiera palestinese sventola su sempre più edifici pubblici in Italia, compreso il municipio di Roma. Inoltre sempre più amministrazioni pubbliche hanno votato per il riconoscimento della Palestina e il boicottaggio dei prodotti israeliani.
Per avere successo i movimenti sociali devono (anche) influenzare la politica dei partiti. Con enorme ritardo questo sta accadendo con la protesta contro il genocidio israeliano a Gaza. Tra gli altri, quattro parlamentari italiani del Partito democratico, del Movimento 5 Stelle e dell’Alleanza verdi sinistra sono stati a bordo di una delle navi della Global Sumud Flotilla. Nel bel mezzo degli attacchi militari alla Flotilla, i membri dei rispettivi partiti hanno occupato l’aula del Parlamento chiedendo al governo di prendere posizione sull’ultima intensificazione del genocidio israeliano e di agire contro gli attacchi criminali alla Global Sumud Flotilla. Sotto questa pressione, il ministro della Difesa ha inviato una nave per proteggere i circa 50 italiani a bordo della Flotilla, mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è persino dichiarata disponibile a considerare un possibile riconoscimento della Palestina (richiesto tra l’altro da decine di migliaia di firmatari di una petizione lanciata da una rete di diplomatici italiani).
In sintesi si sta sviluppando un movimento globale per una Palestina libera contro il genocidio israeliano, ma anche contro la complicità occidentale in esso. Mentre Israele minaccia di usare una “forza senza precedenti” contro una popolazione affamata, bloccando ogni possibilità di fuga, e le potenze occidentali assistono senza intervenire, è la società civile che, in molti Paesi, si sta mobilitando contro il genocidio israeliano e per una Palestina libera. Con la recente intensificazione ma anche grazie al radicamento in una campagna durata due anni, il movimento sociale italiano per una Palestina libera sta dimostrando ciò che Charles Tilly ha definito “Worthiness, unity, numbers, and commitment”. In sintesi con gli scioperi della fame degli operatori sanitari, il blocco del traffico di armi verso Israele da parte dei lavoratori portuali, gli appelli al boicottaggio delle istituzioni israeliane da parte di coloro che lavorano e studiano nelle scuole e nelle università italiane, i lavoratori dell’industria cinematografica che dichiarano di non voler collaborare con le aziende israeliane, i cittadini e i lavoratori del settore turistico che rifiutano di offrire momenti di relax ai soldati dell’Idf: tutte queste azioni di protesta indicano che Gaza ci sta costringendo non solo ad agire in solidarietà contro il genocidio ma anche a riflettere sulle questioni etiche legate a tutte le attività umane.
Donatella della Porta è professoressa di Scienza Politica, prima preside della Facoltà di Scienze Politico Sociali e coordinatrice del dottorato in Political Science and Sociology alla Scuola Normale Superiore a Firenze, dove dirige il Centre on Social Movement Studies (Cosmos). Fra i suoi principali temi di ricerca ci sono i movimenti sociali, la violenza politica, la corruzione, la democrazia e la partecipazione politica. Per Altreconomia ha curato il saggio “Guerra all’antisemitismo?” (2024)
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